Copertina della rivista
orso polare

Il tempo delle parole e delle attese è finito. Adesso servono i fatti

di Luigi Ferrieri Caputi

DOI 10.12910/EAI2021-037

Quando parliamo di cambiamenti climatici non stiamo discutendo di una questione “d’ambiente”, di nicchia, o per pochi, ma del più grande sconvolgimento sociale, economico e politico mai vissuto. È la sfida dei diritti umani, delle libertà fondamentali, della democrazia e un’enorme occasione che non possiamo lasciarci sfuggire: è il più sicuro (e ricco di opportunità) dei sentieri che possiamo percorrere per uscire dalla selva oscura della crisi economica e affrontare molti dei problemi di noi giovani, primo tra tutti il lavoro.

Luigi Ferrieri Caputi

Luigi Ferrieri Caputi

21 anni, attivista di Fridays For Future Italia, studia Studi Internazionali all'Università Cesare Alfieri di Firenze

La crisi climatica è la singola più grande minaccia per la nostra società. Queste parole, forse, le avrete già sentite. O forse no. Sta di fatto che se questa cruda realtà fatica a far breccia nella consapevolezza generale, altrettanto arduo è lo sviluppo della conoscenza su quanto monumentale sia questa sfida; seppur sia vero che essa è sempre più diffusa.

È necessaria una premessa, dobbiamo sfatare un mito che spesso avvelena la nostra comunicazione. Quando parliamo di cambiamenti climatici non stiamo discutendo di una questione “d’ambiente”. Questa espressione è mal posta, la considerazione di quella climatica come di una questione per ambientalisti – riducendola per esempio alla raccolta differenziata, o alla plastica e basta – è miope e deleteria. Semplificare un mutamento quale quello climatico attuale a un problema “per gli ambientalisti” è forse uno degli errori comunicativi più dannosi che si possano fare.

La stessa parola ambientalista, in realtà, non ha molto senso. Che cosa significa essere ambientalisti? Se significa avere cura di un certo ambiente esterno a noi, non siamo tutti ambientalisti? Diventa, in questa più comune accezione, una questione di senso civile. Abbi cura del prossimo tuo è un imperativo generale, che di certo poco ha a che fare con ‘l’ambiente e basta’.

Un’ipoteca sul nostro modo di vivere

Il termine ambientalista sembra ridurre la questione climatica a un settore per pochi, o di nicchia se vogliamo. In realtà, la situazione è ben diversa. Non parliamo di ambiente, non c’è “Un pianeta da salvare”. Questa è una retorica che allontana il problema dalla quotidianità di tutti noi, quando è invece sempre più reale e attuale.

Parliamo infatti del più grande sconvolgimento sociale, economico e politico che abbiamo mai vissuto. Una serie di eventi che pone un’ipoteca sul nostro modo di vivere, e su ciò che abbiamo più a cuore: la libertà, la democrazia.

Spesso queste parole sembrano allarmiste, non essendo noi abituati a sentirle, ma sono le parole utilizzate dai più grandi esperti planetari nei rispettivi campi. Tra gli sconvolgimenti maggiori avremo, per fare un esempio, i più imponenti flussi migratori della storia, centinaia di milioni – fino a possibilmente miliardi - di persone costrette ad abbandonare la propria casa a causa di eventi atmosferici senza precedenti, siccità, innalzamento dei mari e guerre per le poche risorse rimaste. Sembra difficile collegare la questione climatica al problema della guerra, per esempio. Eppure, già ora possiamo osservare questo fenomeno: come nel caso del conflitto siriano. Ecco un esempio perfetto, che probabilmente in pochi sapevate, uno dei più violenti conflitti recenti che ha – tra le sue molteplici cause – anche un pianeta mediamente più caldo.

La sfida dell’azione climatica è la sfida dei diritti umani, che solo in Europa hanno un qualche valore orientativo delle politiche e che solo in Europa sono veramente tenuti in considerazione quando si affronta la politica estera; è la sfida delle libertà fondamentali. Della democrazia. Insomma, per la nostra società. Già ora in quei Paesi che pensiamo “lontani” decine di milioni di individui sono vittime degli effetti della crisi climatica, per la quale non hanno responsabilità.

Dal sopracitato conflitto in Siria ai tifoni nelle Filippine, alle piogge record nel subcontinente indiano, fino al deserto del Sahara che si espande sempre di più, ingoiando interi popoli ed esacerbando i già esistenti conflitti; ci troviamo in una situazione asimmetrica dove i Paesi più a rischio sono anche quelli più poveri, il pianeta si riscalda in maniera differente e le conseguenze non sono omogenee. Anche per questo motivo il riferimento degli Accordi di Parigi sul clima a +1,5 gradi è essenziale. Accertato questo, dobbiamo anche tenere di conto dei cambiamenti che già sono avvenuti e che l’attuale riscaldamento globale – confermato quest’anno a +1,2 gradi - vedrà le sue conseguenze nei prossimi anni. Così come per la pandemia l’effetto segue alla causa in tempistiche di settimane; le azioni o inazioni climatiche vedono i loro risultati negli anni; pur restando attuali gli sconvolgimenti che già viviamo.

Non abbiamo ancora superato il punto di non-ritorno

Al momento siamo in un’emergenza non ancora percepita come tale. Oppure, percepita ancora come lontana, se non come un futuro inevitabile. Niente di tutto questo potrebbe essere più falso. Il clima che cambia già colpisce duramente la nostra società (e sì, anche in Italia); e dal segretario generale della NATO alla Coldiretti, da Antonio Guterres a John Kerry, tutti sono concordi nell’affermare che questa sfida è la sfida del XXI secolo.

La grande varietà di attori che riconoscono l’urgenza climatica dimostra anche quanto essa sia trasversale e capace di andare a colpire (in negativo, ovviamente) ogni sottoinsieme della nostra società. Eppure, sarebbe sciocco dire che la storia finisce qui. Che siamo condannati.

Il disfattismo è oggi nient’altro il nuovo leitmotiv dei negazionisti. Se alcune conseguenze saranno indubbiamente inevitabili, come le migrazioni di massa, è vero che le azioni di adattamento sono anch’esse un must; siamo ancora in tempo per invertire la rotta e per assicurare una società più giusta per tutti. Non abbiamo, sebbene siamo disastrosamente vicini, ancora superato il punto di non-ritorno.

La pandemia ci ha dimostrato che siamo assolutamente in grado di prendere misure di emergenza e di affrontare una situazione di crisi. Chiaro, magari non siamo stati in grado di gestirla al meglio – ma quella climatica non è ancora nemmeno trattata come una crisi. La realtà necessaria è tanto lontana da quello che diciamo di fare, quanto quello che stiamo facendo è lontana da quello che promettiamo. Insomma, le promesse non sono abbastanza e le azioni non rispettano le promesse.

Restare sotto i +1,5 gradi è scientificamente ancora fattibile

Stiamo perdendo questa battaglia? Al momento sì. Ma non necessariamente questa deve essere la realtà dei fatti, anzi: il cambio di rotta è ormai iniziato e inevitabile. Adesso si parla di accelerare il più possibile questo cambiamento, la discussione non è più sul se avverrà, la sfida adesso sarà farcela in tempo. Un mondo migliore è ancora possibile. Restare sotto i +1,5 gradi è scientificamente ancora fattibile.

Nonostante questo, può sembrare che ormai tutto sia perduto. Davanti a una tale crisi, è solo naturale sentirsi affranti, troppo piccoli o inutili. Eppure, la realtà è ben diversa: la questione climatica è anche un’enorme occasione che non possiamo lasciarci sfuggire. Specialmente ora che dobbiamo rimettere in moto le nostre economie. Agire per il clima è il più sicuro (e ricco di opportunità) dei sentieri che possiamo percorrere per uscire dalla selva oscura della crisi economica.

Sia in un’ottica di costi benefici (agire ci costa molto meno di quanto ci costerà non agire), sia in un’ottica più di breve periodo: come soluzione alla crisi economica generata dalla pandemia molti economisti – tra cui il premio Nobel Stiglitz – hanno infatti suggerito la strada della transizione ecologica. È sempre lo stesso Stiglitz, inoltre, che mostra come investire nelle rinnovabili crei fino a tre volte i posti di lavoro rispetto agli investimenti nel settore del fossile. Economicamente, quindi, ci conviene. E molto.

Investire nell’educazione

La gestione della crisi permetterebbe, vista la necessità di un cambio anche individuale del proprio stile di vita, di investire nel settore dell’educazione e far tornare la politica più vicina ai cittadini. Qua ognuno deve fare la sua parte, e questa chiamata all’azione civile, questa mobilitazione collettiva darebbe un nuovo senso di comunità che stiamo da tempo perdendo. Anche, e soprattutto, tra noi giovani.

La pandemia ci ha costretti a interrompere quello che era il nostro stile di vita. Si potrebbe costruire un parallelismo, ma sarebbe alquanto sbagliato: adesso sarà completamente diverso. Miglioreremo la nostra salute riducendo il consumo di carne. Avremo bisogno di meno auto (ma elettriche) e anche questo avrà un impatto enorme sulla salute: risparmieremo, vivremo meglio e più a lungo. Grazie all’efficientamento energetico dei nostri edifici e alle energie rinnovabili le nostre bollette saranno abbattute, l’energia costerà meno, ci sarà molto più lavoro e ancora: meno morti. Si stima infatti che a causa dell’inquinamento dell’aria 52.300 persone siano morte prematuramente in Italia nel 2018, un valore secondo solo a quello della Germania (che ha però molti più abitanti di noi). Più di 50.000 persone che muoiono ogni anno, una carneficina.

Certo, ancora non stiamo facendo abbastanza – e dobbiamo assolutamente fare di più. Però possiamo essere ottimisti: siamo sulla buona strada, lo dimostrano la Climate Law europea, o anche la possibilità per noi giovani di scrivere su uno spazio come questo, o di metterci in gioco con le nostre proposte (come quelle visibili sul sito www.ritornoalfuturo.org), o ancora di partecipare a eventi come la YouthCOP.

È innegabile che la situazione negli ultimi due anni abbia subito una svolta senza precedenti. Per noi giovani la necessità di un’economia sostenibile rappresenta la rara occasione di risolvere molti dei problemi che affliggono la nostra generazione, e primo tra tutti il problema lavorativo; ma anche quello della stagnazione. Un’economia green assicurerebbe una crescita economica che, conseguentemente, migliorerebbe le nostre vite.

Questo anno si terranno eventi internazionali che saranno essenziali come la COP26 e il G20. Entrambi si terranno totalmente o parzialmente in Italia (la YouthCop e la Pre-COP26 si sono svolte a Milano) e il nostro Paese potrebbe essere leader nei negoziati climatici, assieme all’Europa.

Ma recentemente alla LeaderClimateSummit il nostro primato è stato scardinato dagli Stati Uniti e dal Regno Unito che ne sono usciti con una prospettiva molto migliore rispetto alla nostra, non solo nei target climatici ma anche nella narrazione del proprio ruolo. L’Europa dovrebbe giocare un ruolo centrale e fondamentale, sia nel campo della mitigazione che nel campo dell’adattamento. Il nostro mercato unico deve tenere di conto della necessità di una carbon tax, per esempio. Imponendola anche alla frontiera così da incentivare Paesi come la Cina a una più veloce transizione. Come ha detto anche lo stesso John Kerry, questo è il decennio decisivo per l’azione climatica; le nostre più brillanti menti scientifiche sono concordi: il tempo delle parole e delle attese è finito. Adesso, servono i fatti.

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