Copertina della rivista
Alessandro Coppola

Innovazione ed innovatori, il punto

di Alessandro Coppola

Innovare è una necessità per un Paese avanzato come l’Italia, che deve confrontarsi a livello globale con molti altri competitori sui temi della qualità, della produttività e della sostenibilità. E lo è in maniera assolutamente indispensabile, se vogliamo man­tenere il PIL almeno ai livelli attuali, evitare la ‘commoditizzazione’ delle nostre produzioni e mantenere l’immagine di un nostro Paese avanzato sia tecnologicamente che come valore aggiunto dei prodotti.

di Alessandro Coppola, Direttore  Innovazione e Sviluppo - ENEA

Quando la Direttrice della Rivista EAI mi ha proposto di contribuire in prima persona all’impostazione del presente numero sull’Innovazione, vi ho visto una ottima opportunità per declinare l’argomento non come una “semplice” carrellata di esempi spot nei vari ambiti tecnico-scientifici in cui opera l’Agenzia, ma spostando radicalmente la prospettiva sugli autori dell’Innovazione,  sia diretti che indiretti artefici con cui ci confrontiamo quotidianamente. Tali protagonisti, da prospettive anche molto diverse (Ricerca, Accademia, Cultura, Finanza, Industria, Servizi, Risorse Umane, etc.), contribuiscono come tanti ingranaggi complementari ed indispensabili alla complessa macchina del processo innovativo, che è e sarà l’unica in grado di mantenere il nostro Paese competitivo e sostenibile (ambientalmente ed economicamente) negli anni a venire. Da qui quindi la chiamata a raccolta di riflessioni soprattutto di taglio metodologico, anche molto differenti come sensibilità e background, caratterizzate tutte però da una profondità resa possibile dalla grande esperienza degli scriventi, che ringraziamo per la disponibilità e l'attenzione concessa. Un approccio innovativo nel parlare di Innovazione, che spero incontri il favore di tutti Voi che dedicherete un po’ di tempo al leggerci.

Innovare è opportuno… almeno quanto respirare

Innovare è una necessità per un Paese avanzato come l’Italia, che deve confrontarsi a livello globale con molti altri competitori sui temi della qualità, della produttività e della sostenibilità. Se vogliamo almeno mantenere il nostro PIL ai livelli attuali, ovvero intorno ai 34k€/y pro capite, e non scivolare lentamente verso i 2-3000€/y dei Paesi sottosviluppati, evitare la ‘commoditizzazione’ delle nostre produzioni e mantenere l’immagine di un Paese avanzato sia tecnologicamente che come valore aggiunto dei prodotti, è una indispensabile necessità.

Infatti, ogni prodotto di successo (che sia un servizio o un bene fisico) nasce come innovativo, ma poi inesorabilmente tende a perdere quelle caratteristiche di particolare vantaggio verso prodotti concorrenti, diventando quindi una commodity con caratteristiche date come standard minimo di immissione sul Mercato, e pagata “un tanto al kg” come si diceva una volta o (come si potrebbe attualizzare) un tanto a Wpicco o a kWh… per chi vuole intendere. Passare dallo status di “premium product” a quello di commodity significa in sostanza garantirsi una certa marginalità solo per effetto di compressione dei costi: sicuramente per effetto di grandi scale produttive, vuoi con manodopera a basso costo, vuoi con materie prime ed energia a prezzi particolarmente vantaggiosi, vuoi con il taglio dei “base costs” (ove ricade purtroppo proprio l’investimento in Ricerca). Ed in quanto tempo?

Presumibilmente un ciclo di prodotto, che una volta era circa tra 10 e 20 (nel caso B2B) anni per beni relativamente durevoli, ma adesso è sicuramente compresso nell’orizzonte di 2-3 anni da digitalizzazione pervasiva, globalizzazione, volatilità geopolitiche, e stringenti quanto ineluttabili esigenze di cambio di paradigma circa la sostenibilità ambientale. Pur mantenendo l’orizzonte più ampio, ciò significa che non investire con successo nell’intero processo dell’Innovazione, porta nell’arco di una decina di anni al depauperamento del vantaggio competitivo dei prodotti e quindi, considerando il PIL come il combinato disposto del valore generato da tutte le attività di un Paese, al declino di quest’ultimo come sopra accennato. E chi pensa di campare sugli allori (eg service su flotte installate o lock-in tecnologico su servizi in essere) o spingendo su incentivazioni mirate ad un Mercato speculativo per prodotti commoditizzati, più che a creare Industria sostenibile nel lungo termine (eg alcuni Conti Energia del recente passato, che han stimolato e finanziato “progetti mostro” con Internal Rate of Return - IRR al 30%), sta già scrivendo il suo destino.

Le produzioni più resilienti a tale logoramento (in estrema sintesi e ad esperienza dello scrivente) sono: 1- quelle che si mantengono sulla cresta con un processo innovativo continuo, 2- quelle di prodotti il cui potenziale “cost of failure” ha particolare impatto ben oltre il costo d’acquisto dello specifico bene (eg un motore d’aereo, una trivella sottomarina per pozzi di petrolio, una nave da crociera etc…), 3- quelle dove il valore è percepito come qualità garantita dal brand e dal suo posizionamento/riconoscimento nel mercato di riferimento (eg. food&beverage, moda, etc). E se guardiamo bene, queste ultime due categorie beneficiano largamente della percezione di qualità ed abbattimento del rischio di investimento che viene espressa dal sistema produttivo Italiano, proprio per la sua riconosciuta capacità di Innovare e creare soluzioni solidamente innovative con le proprie eccellenze industriali. Quindi l’Innovazione in certi settori genera a sua volta ricadute circa la valutazione di qualità ed opportunità di investimento, anche in produzioni che per vari motivi sono molto più conservative o tradizionali. E quanto vale quindi l’investimento in Innovazione in termini di PIL? Ci sono approcci più o meno sofisticati sull’argomento, che è sicuramente molto interessante; in questo caso però direi che la pretesa di precisione del computo è inversamente proporzionale alla sua affidabilità. Accontentandoci quindi di una indicazione di massima (ovvero di guardare dove punta il dito, tralasciando la perfezione dello stesso…) confrontando il PIL e gli investimenti in Innovazione dichiarati da vari Paesi ma anche da grandi aziende (in Italia – come in altri Paesi avanzati- ricordo che il 33% del PIL è fatto dallo 0,4% delle aziende) nell’arco appunto di una decina di anni, un euro investito oggi genera circa 20-30euro di PIL nei dieci anni a venire. Aggiungo inoltre che, da uno studio commissionato nel 2020 dal governo britannico, un pound di investimento nel settore della Ricerca pubblica, stimola un investimento ulteriore di circa 2 pounds in tutta la filiera della Ricerca da parte di operatori privati in circa una decina di anni (anche loro han utilizzato tale riferimento temporale). Non sono numeri scolpiti nella pietra, ma danno una chiara indicazione dell’importanza dell’Innovazione per un Paese come il nostro.

Il percorso dell’Innovazione e le sue insidie

Ma che significa fare Innovazione da un punto di vista pratico? In estrema sintesi percorrere l’iter che dalla Ricerca di base porta al punto di caduta applicativo di prodotti e servizi. Tale iter è stato efficacemente caratterizzato dallo schema suddiviso in TRL (Technology Readiness Level), ovvero 9 passi successivi da TRL1 a TRL9, messo a punto dalla NASA negli anni ’70, a valle dell’esperienza immensa dei programmi spaziali che con Spacelab (dopo Mercury, Gemini ed Apollo) andavano chiudendosi, e che aveva visto una collaborazione coordinata ventennale di centinaia di migliaia di scienziati, ingegneri, istituti di Ricerca ed industrie. Il passo cruciale è quello da una tecnologia ancora molto prototipale e sperimentale, allo stadio di industrializzazione e sua conversione in soluzioni utili al Mercato finale, ovvero il cosiddetto Trasferimento Tecnologico baricentrato al TRL5. Tale passaggio nelle grandi aziende dotate di centri di Ricerca, che magari sfornano pure premi Nobel, non rappresenta un problema, dato che la struttura di Ricerca è usualmente ben raccordata con quella dell’ingegneria e sviluppo prodotti; inoltre la Ricerca di base ha un costo ed un rischio in termini finanziari che solo aziende con largo margine operativo possono permettersi, anche nella logica che, avendo più linee di business, la ricaduta di una certa attività di Ricerca può declinarsi su varie linee di produzione, compensando ampiamente eventuali iniziative poco fortunate.

Ma ben il 95% delle aziende sono (almeno in Italia) PMI, con un management spesso a struttura famigliare e molto cristallizzato nel proprio business model all’interno di una filiera, quindi con scarsissima propensione a lanciarsi in investimenti visti finanziariamente come una “roulette russa”. A meno di non esservi trainati da strategie definite dalle grandi aziende di cui sono parte della supply-chain, come da un vento che però non è detto spinga su rotte sicure. Inoltre anche le grandi aziende multinazionali hanno (in particolare) negli ultimi due decenni spinto moltissimo su pratiche di M&A (Merging & Acquisition), che hanno depauperato le loro capacità interne di vera Innovazione, esternalizzando il rischio finanziario, ma anche però il valore insito nelle attività a TRL più basso.

Il risultato complessivo è quello che senza una Ricerca fatta con investimenti Pubblici da Enti di Ricerca, difficilmente le aziende si avventurano su iniziative di Innovazione a basso TRL (<5), e quindi l’efficacia del Trasferimento Tecnologico diventa assolutamente dirimente sugli esiti dell’intero processo. Ed a chi chiedesse allora quale sia ad oggi il tratto saliente di una Azienda Innovativa, direi “dimostrare un modello di business flessibilmente adattivo”, ovvero capace di adattare il proprio ruolo nella filiera così da mantenere il riconoscimento del proprio valore aggiunto dagli altri partecipanti/clienti alla stessa; l’evoluzione di prodotti e servizi che tale azienda esprime sono quindi le evidenze principali di tale capacità, monetizzandovi in modalità “open innovation” la Ricerca a TRL medio-basso fatta da altri soggetti dedicati (EPR soprattutto). Se guardiamo ad esempio il settore elettrico ma anche quello delle telecomunicazioni, appare evidente quanto le Aziende più performanti abbiano voluto diversificare il business model, uscendo da quelli che son stati per decenni i loro ruoli cristallizzati. Lo sviluppo conseguente di Prodotti e Servizi innovativi applicandovi nuove tecnologie, appare in estrema sintesi un effetto di questa capacità di mantenere un business model flessibile.

Il nodo del Trasferimento Tecnologico ed il suo finanziamento

E siamo quindi al punto critico, ovvero il Trasferimento Tecnologico, che evidentemente diventa un passaggio di consegne cruciale a TRL5 tra soggetti diversi, ovvero il mondo della Ricerca e quello dell’Impresa. Immaginiamo una gara a staffetta a due tra competitori a livello globale, dove ogni corsia rappresenti un Paese in competizione ed i due corridori di ogni squadra sono il primo la Ricerca ed il secondo l’Impresa. Sul testimone che vien passato di mano c’è scritto “Trasferimento Tecnologico”, il pubblico (pagante) sugli spalti è quello del mondo degli investitori, che ama puntare sulle squadre che usualmente si dimostrano vincenti. Sottolineo “squadre”: si può infatti esser eccellenti come singoli corridori, ma nel risultato vincente risulta determinante la pianificazione ed esecuzione del passaggio di testimone. Se infatti i due corridori seguono regole diverse, corsie differenti, se non si crea la giusta sovrapposizione di mani e se il testimone non è disegnato per un facile passaggio cadendo inesorabilmente a terra, a vincere sarà sempre e comunque il meglio organizzato e non chi è dotato delle più elevate (singole) eccellenze. Ed è qui un grande nodo di base: Ricerca, Imprenditoria ed aggiungerei anche la Finanza (il pubblico pagante…) rappresentano culture, obiettivi ed organizzazione molto differenti che vanno quindi accuratamente raccordate tra loro.

In particolare (nella prospettiva dello scrivente) la Ricerca di base ha una organizzazione molto trasversale (eg. tecnologie energetiche, materiali avanzati, fusione nucleare, AI, etc) mentre l’Imprenditoria/Industria molto suddivisa per verticali (eg Aerospace, Automotive, Life Sciences, Power Generation, etc), quindi il passaggio di testimone sembra addirittura dover avvenire su corsie apparentemente ortogonali tra loro. Inoltre corridori con propri obiettivi differenti, tenderanno a guardare in direzioni differenti anche mentre gareggiano.

Ben vengano allora le iniziative per metter insieme ed a confronto questi differenti universi, con clusters, networks, communities, etc. Se ne leggono in effetti di molti e come proposta anche in vari piani di sviluppo a livello sia centrale che regionale. Ma funzionano veramente? Se sono dei contenitori dove vengono messi dentro ricercatori ed imprenditori attendendone una “autarchica miscibilità” forse anche no. Un po’ come metter in una bottiglia acqua ed olio e poi, dando energia agitando la bottiglia (ovvero mettendoci soldi pubblici), si scambi l’emulsione ottenuta per una vera sintesi: finiti i soldi, i due fluidi ritornano inesorabilmente nei loro ranghi. A maggior ragione se le aziende sono PMI, quindi usualmente non dotate di propri laboratori di R&I e di esperienza di Trasferimento Tecnologico già al proprio interno.

Serve quindi un catalizzatore, ovvero inserire nella miscela una terza sostanza che risolva la tensione determinata dalle differenze “culturali” ed organizzative di cui sopra; tale catalizzatore sono delle professionalità intermedie e che abbiano la capacità di raccordare la trasversalità della Ricerca con la verticalità dell’Impresa, sapendo al contempo dimostrare alla Finanza l’efficacia e mitigazione del rischio. Non dei super-specialisti, ma dei generalisti “mediatori culturali” mi verrebbe da dire per battuta.

Non basta quindi aver creato “un ufficio di trasferimento tecnologico”, se poi lo si popola di professionalità anche scientificamente elevate ma scevre di esperienze sul campo trasversali e catalizzanti: un motore da F1 non va bene per spingere un treno di vagoni. Queste vanno create con un percorso che magari parta già a livello universitario (non mi sembra ci sia un indirizzo in ”Trasferimento Tecnologico” in alcuna Facoltà sia tecnico/scientifica che economico/umanistica), e valorizzate con criteri idonei (non essendo ricercatori) in Enti di Ricerca che abbiano forte attinenza e presenza presso le Aziende ed il tessuto produttivo nazionale.

Il nodo del Trasferimento Tecnologico non è quindi tanto od esclusivamente un problema di disponibilità di fondi (di soldi ce ne son sempre stati parecchi ed anche di fondi privati, nonostante in Italia certamente si sconti un gap di raccolta vs i Paesi anglosassoni… sentendo chi lavora nel mondo degli investitori); creare nuovi fondi pubblici e fondazioni anche con ricche dotazioni, senza chiedersi perché altri precedenti abbiano avuto scarsi risultati (se non quelli di diventare sovvenzioni a pioggia) come leva per l’attrazione di capitali privati, appare quindi poco utile.

Quel che è troppo spesso mancato è una progettualità del “passaggio di testimone” tra i protagonisti della staffetta, credibile e con rischio accettabile per i finanziatori. La mancanza di fondi la classificherei quindi come un indicatore derivato, più che un problema in sé.

L’incrocio tra investimenti pubblici, venture capital e aziende altamente innovative costituisce uno dei fattori chiave per assicurare ad un Paese la crescita economica e la competitività. Un tema che risulta sempre più chiaro a molte grandi imprese multinazionali, che al loro interno provvedono ad incubare un numero crescente di start-up. Inoltre, seppur ancora lontani dai livelli dell’Europa e certamente degli Usa, gli investimenti in start-up sem­brano aver buona maturità anche nel nostro Paese; il razionale della mancanza di fondi dovuto ad uno sbilanciamento degli investito­ri su logiche bancarie, forse poteva valere fino ad alcuni anni fa, ma oggi potremmo dire che anche in Europa ed Italia è un problema progressivamente sempre più miti­gato, anche per effetto della globalizzazione degli stessi venture capital. Si tratta quindi di accompagnare anche le PMI su tale percorso virtuoso, aiutandole nello strutturare le loro progettualità in maniera credibilmente innovativa e non come boccata di ossigeno in tempi di crisi.

Considerazioni di carattere strategico

Giusto un paio di considerazioni. La prima: in un Paese industrializzato e tendente alla terziarizzazione, ove gli operai sono sempre più tecnici specializzati, gli agricoltori sono spesso dei tecnologi con profonde conoscenze in campo agronomico, l’offerta culturale e la capacità di valorizzare i luoghi della cultura sono una ineguagliabile opportunità per “fare export a casa nostra”, ciò che fa e farà sempre più la differenza non è solo la demografia quantitativa (tante braccia…tanto PIL) quanto piuttosto quella qualitativa, ovvero il valore aggiunto prodotto da ognuno di noi per effetto delle competenze, formazione e capacità di lavorare insieme che, sia la scuola che poi anche il contesto sociale e lavorativo, riescono a conferirci. Ognuno è innovatore a suo modo con i propri talenti ed aspirazioni, se valorizzati proprio da tale percorso di crescita; e quest’ultimo costituisce un vero generatore di nuove opportunità professionali/occupazionali. La Formazione e la Scuola sono quindi un investimento fondamentale e strategico, per la nostra capacità di svolgere (con successo) il percorso dell’Innovazione.

La seconda: troppo spesso poi nel policy-making si scambiano stru­menti con obiettivi, e si tralascia la definizione del metodo che si dovrebbe seguire. Ed invece di individuare un metodo di generale applicabilità, che permetta cioè di massimizzare l’obiettivo in differenti contesti (spesso molto dinamici, pensando ai progressi spesso sorprendenti di Scienza e Tecnologia), si sposa l’assunto esiziale che bandire certe soluzioni specifiche o “beatificarne” altre tout-court (almeno pro tempore…) sia un modo efficace per risolvere problemi. Tale confusione porta a scelte che vengono poi perseguite in maniera integralista, molto (troppo) spesso perché adottate come icone nel messaging politico, generando un rischio anche finanziario che risulta poi un boomerang nella capacità di attrarre senza sospetto (eccessivo) capitali per Ricerca e trasferimento tecnologico. Ovvero, al netto dell’”eticamente inaccettabile”, l’essere dichiaratamente non neutrali nell’approccio a specifici sviluppi scientifici e tecnologici (tutti buoni e tutti cattivi, dipende da come le si impieghi), fa sì che quelli “iconizzati” diventino l’obiettivo applicativo e non lo strumento per i quale se ne evoca l’impiego. Come se la Scienza, invece che incardinata sul “metodo scientifico”, si basasse sulla volontà di difendere una visione dogmatica dell’universo, per decisione presa una tantum. Per poi sbagliarsi…

L’impegno di ENEA e l’evoluzione degli strumenti disposti dall’Agenzia

L’ENEA - Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile- è uno dei principali attori a livello nazionale che sviluppano know-how tecnico scientifico ovvero ricerca di base e ricerca industriale, con però una particolare e caratterizzante propensione alla Innovazione e Sviluppo precompetitivo; ciò con propri strumenti per Trasferimento Tecnologico e la collaborazione diretta con associazioni del tessuto produttivo (eg Confindustrie, Unioncamere), industrie e startup, queste ultime talvolta anche costituite in seno all’Agenzia. Proprio per effetto della vicinanza al mondo imprenditoriale, nell’Agenzia si è sviluppata una profonda consapevolezza della criticità del Trasferimento Tecnologico, motivo per cui negli ultimi anni ENEA ha voluto affiancare alle grandi competenze ed asset in ambito tecnico/scientifico, testimoniate dalla ricaduta dell’impegno devoluto dai quattro Dipartimenti dell’Agenzia, impegnati oltre che nel supporto diretto anche nel raccordo tra aziende che vogliano creare sinergie (eg nella Circular Economy, nelle CER, nel DTT etc. etc.), anche strutture e strumenti pensati ad hoc. Tra questi ricordiamo con particolare evidenza la realizzazione di un “Atlante dell’Innovazione”, l’investimento in un proprio Fondo di Proof of Concept (POC) ed il Programma di Knowledge Exchange (KEP), che si affiancano a strumenti più tradizionali quali il sistema di incentivazione del trasferimento tecnologico mediante gli Spin-off della Ricerca.

La metodologia di approccio adottata ricalca senz’altro i concetti del modello harvardiano “Open Innovation”, tenendone conto realisticamente dei limiti. Ovvero: sicuramente è efficace in modalità che definirei “pull” nel momento in cui si parli di aziende medie e grandi, ovvero già eventualmente esperte in R&I in-house ed in grado di andare a caccia di brevetti ed idee innovative presso chi fa Ricerca; tuttavia le PMI sono generalmente troppo poco “strutturate” per andare oltre il proprio territori o di pertinenza, collaborando quindi se ed ove possibile con le università limitrofe, certamente hanno difficoltà nel relazionarsi con grandi centri di Ricerca e difficilmente hanno risorse economiche significative per commissionare attività. La modalità “push”, ovvero con la Ricerca che va proattivamente a cercare “beneficiari” presso il mondo dell’imprenditoria magari portando anche possibili strumenti di finanziamento, è quindi una esigenza concreta volendo supportare l’universo PMI: una sfida molto impegnativa , sia per la frammentazione sia per motivi culturali tra le parti in gioco, ma che ENEA sta seriamente volendo affrontare (importante lavoro con l’Associazionismo ed Istituzioni).

Limitandoci ad un primo accenno circa i summenzionati strumenti, e rimandando quindi l’approfondimento ai più specifici scritti avanti nella presente pubblicazione: auspicando che diventi strutturale, il Fondo di “Proof of Concept” dell'ENEA è uno strumento con dotazione finanziaria multimilionaria che, così come è stato implementato con il finanziamento di progetti che dimostrino la fattibilità di una tecnologia o del concept di un prodotto, non solo mira a ridurre il gap fra risultati della ricerca (generalmente caratterizzati da basso TRL) e applicazione industriale, ma genera un “matching” tra i diversi attori coinvolti nel processo di sviluppo fin dalle fasi embrionali di definizione delle tecnologia, con flussi di conoscenza scambiati in maniera multidirezionale (per l’appunto “open innovation”).

Il Knowledge Exchange Program (KEP) nasce dalla volontà dell’ENEA di rispondere in modo sempre più efficace proprio alla necessità di riallineare le due culture della Ricerca e dell’Impresa, favorendo il passaggio di testimone rappresentato da Trasferimento Tecnologico, creando la figura ENEA del KEO (Knowledge Exchange Officer), ovvero professionalità formate e dedicate proprio ad una azione di raccordo tra EPR ed Imprese, in collaborazione con CNA, Confapi, Confartigianato, Confindustria e Unioncamere. Sull’esempio di best practices internazionali di trasferimento tecnologico (eg. MIT in primis), l’obiettivo del programma KEP è quindi di intensificare le relazioni con il sistema produttivo, consolidando tali partnership nel medio-lungo termine e incentivando in tal modo i processi di trasferimento tecnologico secondo una prospettiva di open innovation. A tale programma hanno già aderito oltre 250 aziende nazionali.

Tali due strumenti qui evidenziati, si stanno dimostrando certamente importanti chiavi di volta dell’arco immaginario dei TRL, come struttura portante del carico di innovazione che la Ricerca può trasferire al tessuto produttivo. Ma anche essi necessitano di Innovazione continua e, sulla base dell’esperienza acquisita, ci stiamo quindi impegnando nel potenziare da un lato la dotazione di risorse dedicate a seguire le aziende e, dall’altro, sia a migliorare il processo di ingaggio e coordinamento delle attività con le controparti, sia ad una caratterizzazione dell’offerta di Servizi e tecnologie “off the shelf” organizzata secondo un articolata matrice di verticali industriali (Healthcare, Aerospace, Automotive, etc..) piuttosto che nella più usuale (per un Ente di Ricerca) modalità per orizzontali tecnologici (nanotecnologie, optoelettronica, etc…). Facendo quindi noi un ulteriore sforzo di avvicinamento culturale verso le Aziende.

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