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Rio 1992-Rio 2012: dallo sviluppo sostenibile alla green economy

di Costanza Pera, Architetto - Presidente di Sezione del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici

La ormai imminente Conferenza Rio+20 avrebbe potuto anche essere denominata “Stoccolma +40”. È infatti nella capitale svedese, nel 1972, che le Nazioni Unite hanno cominciato ad esprimersi con forza sul problema del degrado dell’ambiente. E nello stesso anno, ormai lontanissimo, dilagava l’allarme lanciato dal Club di Roma con il rapporto presentato allo Smithsonian Institute di Washington sull’esauribilità delle risorse naturali.

Ma gli organizzatori delle Nazioni Unite, titolando la prossima Conferenza su Ambiente e Sviluppo a quella di Rio del 1992, e assegnandola alla stessa città di allora, hanno voluto rafforzare le responsabilità di chi vi prenderà parte. Infatti, l’Earth Summit di Rio espresse nei confronti dei problemi ambientali del mondo contemporaneo una vitalità e profondità tali, e produsse una vibrazione così forte e prolungata, che davvero riuscì ad imprimersi nelle coscienze dei governanti e dei popoli. Tornare a Rio vent’anni dopo vuol dire misurarsi con l’attesa e l’energia diffusa, per la prima volta e nel mondo intero (disastro di Chernobyl a parte), nei confronti della questione ambientale.

I documenti approvati nel 1992 rendono conto della straordinaria complessità e vastità degli argomenti e degli interessi che si erano confrontati in vista della Conferenza e che alla fine avevano trovato una composizione, sebbene la pregnanza degli impegni vincolanti fosse stata da molti giudicata insoddisfacente. La Convenzione quadro sul clima, la Convenzione sulla protezione della biodiversità, la Dichiarazione sulle foreste, la Dichiarazione di Rio e l’Agenda 21, benché frutto di strenui negoziati sui singoli paragrafi da parte di paesi i cui indici di sviluppo erano agli antipodi e le cui condizioni ambientali erano universi non confrontabili, sono tutti documenti che esprimono al loro interno l’esistenza di problemi impellenti e la necessità di adottate criteri, metodi e impegni che, secondo il nuovo lessico utilizzato dal Principio 8 della Dichiarazione di Rio e dalla Agenda 21, avrebbero dovuto modificare i modi di produzione e gli stili (patterns) di consumo.

Nel panorama dei documenti ufficiali adottati in sede internazionale questi obiettivi erano straordinariamente nuovi per l’impostazione e nella radicalità degli intenti. Essi erano la logica conclusione della scoperta dell’interdipendenza di tutti i settori e di tutte le aree del mondo globalizzato. La loro attuazione richiedeva di mettere in moto un ripensamento delle teorie e delle prassi economiche alla ricerca di strumenti per bilanciare gli opposti interessi dello sviluppo economico e della tutela del pianeta e delle sue risorse. Da allora il processo di rinnovamento culturale e concettuale dei meccanismi economici è stato effettivamente avviato e ha prodotto risultati soprattutto a partire dalle riflessioni sull’inquinamento atmosferico e sui problemi del clima globale. L’emissions trading e l’amplissima rete degli studi sulle emissioni di CO2 a scala locale e globale basate su ogni dettaglio della produzione e dei consumi esprimono un’integrazione tra riflessione economica e consapevolezza ambientale che 20 anni fa non esisteva.

Nel frattempo è esplosa l’attenzione alle fonti energetiche rinnovabili alternative al petrolio, ma quest’ultimo è tuttora il dominus di larga parte degli equilibri geopolitici. La questione ambientale è ormai tutt’uno con i modi di produrre, consumare e accumulare la ricchezza in larga parte del mondo, ma la prospettiva di 1 miliardo e 200 milioni di persone che entreranno nella middle class nei paesi emergenti e la stima di 600.000 aree contaminate in Cina turbano i sonni di chi pensa alla ristrettezza della coperta ambientale. Le risorse naturali sono sempre più scarse, alcuni materiali sono rari. La green economy sarà pertanto al centro di Rio+20 con lo scopo di rompere il nesso tra l’uso delle risorse naturali e la crescita economica e promuovere uno sviluppo che non consumi risorse e non liberi emissioni e scorie, riducendo i consumi energetici.

Rio 1992 ha decretato l’inadeguatezza della formula che ha dominato il Secondo dopoguerra, il Prodotto Interno Lordo, ed è alla base dell’alacrità con la quale la comunità scientifica cerca di individuare nuovi indicatori effettivamente rappresentativi dell’uso delle risorse e delle condizioni di vita delle popolazioni e degli Stati, a partire dall’ Indice di Sviluppo Umano (HDI), utilizzato dalle Nazione Unite a partire dal 1993.

Ma è impossibile anche solo tentare di riepilogare le novità che si sono prodotte in questi venti anni. Il confronto di esperienze, speranze e intenti che presiede alla formazione dei documenti delle sedi internazionali porta talora ad uno spirito che interpreta il senso profondo di un’epoca e mantiene il suo carattere di novità nel tempo. La Dichiarazione di Rio e Agenda 21 esprimono questa speciale alchimia e dopo 20 anni conservano la loro eccezionale carica di novità. Basti osservare che l’Agenda 21 si conclude con il capitolo dedicato alla necessità di migliorare la disponibilità dei dati e delle informazioni necessarie alle decisioni, nel quale si afferma che nell’ambito dello sviluppo sostenibile ciascun individuo è un produttore e un utilizzatore di informazioni e si preconizza, ben prima dell’avvio del world wide web, l’interconnessione delle reti e di protocolli condivisi per lo scambio tra livelli istituzionali, tra i protagonisti della ricerca e per la messa a disposizione di dati espressi nelle forme idonee agli utilizzatori.

Il Principio 10 della Dichiarazione del 1992 afferma che il modo migliore di trattare le questioni ambientali è quello di assicurare la partecipazione di tutti i cittadini interessati, ai diversi livelli. Al livello nazionale, ciascun individuo avrà adeguato accesso alle informazioni concernenti l’ambiente in possesso delle pubbliche autorità (…). Sarà assicurato un accesso effettivo ai procedimenti giudiziari ed amministrativi, compresi i mezzi di ricorso ed indennizzo. Si tratta di formulazioni rivoluzionarie per la larga parte del mondo che doveva ancora familiarizzare con gli strumenti della democrazia e per i procedimenti decisionali dei grandi organismi internazionali che operavano in quei paesi, come la Banca Mondiale. In molti hanno fatto tesoro di quelle linee di indirizzo, ma nell’ambito del Principio 10 appena richiamato, nel nostro stesso paese, l’Italia, ci sarebbe tuttora – dopo 20 anni – un amplissimo spazio giuridico, amministrativo e di iniziativa individuale ed istituzionale da riempire.

Ugualmente resta moltissimo da fare per interiorizzare, nel nostro paese, il principio del risparmio delle risorse naturali e del recupero e riuso, a partire dai rifiuti (ancora!) per arrivare al suolo fertile e alla superficie naturale e permeabile, nuova frontiera della sostenibilità in sede europea ed internazionale. La Relazione sullo stato dell’ambiente rivolta al Parlamento italiano sottolineava fin dal 1989, e poi nel 1992, nel 1996, nel 2002 la crescente urbanizzazione dei suoli italiani. Le politiche territoriali sembrano incapaci di indirizzare verso la conservazione della prima risorsa nazionale, che è un bene insostituibile per la biodiversità, per la produzione agricola ma anche per la stessa resilienza del territorio e per valori culturali come il paesaggio.

Secondo l’elaborazione resa nota dal JRC (Joint Research Centre della Commissione Europea), l’Italia si colloca tra il quarto e il quinto posto in Europa per perdita di aree agricole a causa dell’urbanizzazione tra il 1990 e il 2006. Questo è un buon esempio di sviluppo insostenibile, perché produce deprivazione dell’ambiente e problemi a cascata che, a parte i costi, non hanno possibilità di essere tutti risolti.

Ha dunque ragione la Commissione Europea nel suo documento in vista di Rio+20 quando afferma che “non si tratta di lavorare ai margini di un sistema economico che produce un uso inefficiente del capitale naturale e delle risorse”, perché non basta più. Con la green economy si deve operare per separare e disconnettere l’uso delle risorse naturali dalla crescita economica, promuovendo contestualmente stili di produzione e consumo sostenibili. Indubbiamente l’azione si deve spostare sulle condizioni di regolazione del mercato per incorporare nei prezzi il capitale ambientale consumato.

Chi partirà per primo sarà certamente avvantaggiato.

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