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Fukushima quasi come Chernobyl, ma non nelle modalità incidentali

Una nuova ricerca internazionale apparsa su Atmospheric Chemistry and Physics, a cura dell’Istituto Norvegese di Ricerche Atmosferiche, dell’Istituto centrale di Meteorologia e Geodinamica di Vienna, dell’Università di Vienna, dell’Università della Catalogna e della Columbia University di New York, (web: http://www.atmos-chem-phys-discuss.net/11/28319/2011/acpd-11-28319-2011.html), i cui risultati erano stati anticipati dalla rivista scientifica Nature il 26 ottobre scorso, con un articolo sul sito web: http://www.nature.com/news/fallout-forensics-hike-radiation-toll-1.9237, ha cercato di determinare il cosiddetto “termine sorgente”, ovvero l’entità dell’incidente in relazione alle quantità di radioattività rilasciate complessivamente, anche se la valutazione considera solo due radionuclidi di riferimento.

Per valutare le emissioni radioattive avvenute durante l’incidente nucleare di Fukushima, la ricerca è partita dai dati di radioattività misurati in Giappone, USA ed Europa (circa un migliaio) e ha ripercorso a ritroso i processi di trasporto e diffusione atmosferica e di deposito al suolo della cosiddetta “nube radioattiva” rilasciata durante l’incidente. Questo processo di ricostruzione a ritroso ha permesso di valutare le emissioni effettivamente avvenute, in base alla disponibilità dei dati ed alle possibilità di ricostruzione a posteriori degli avvenimenti mediante le mappe meteorologiche al suolo ed in quota di quel periodo.

I ricercatori sono stati in grado di valutare le emissioni, ma con un maggior grado di affidabilità e di dettaglio solo quelle riguardanti Xe-133 (lo xenon-133 è un gas nobile radioattivo poco rilevante per gli effetti radiologici sanitari) e Cs 137 (il cesio-137 è un aerosol radioattivo particolarmente significativo per i suoi effetti radiologici sanitari).

I risultati ottenuti mostrano che sono stati emessi complessivamente:

  • 700.000 (sedicimilioni e settecentomila) terabequerel (TBq) di Xe-133, un dato record: è, infatti, il più alto valore di rilascio radioattivo in atmosfera mai riscontrato nella storia dell’uso pacifico dell’energia nucleare. Questo dato corrisponde a circa 2,5 (due volte e mezzo) le emissioni di Xe-133 avvenute a Chernobyl. Essendo lo Xe-133 un gas nobile ed altamente volatile non ha comportato conseguenze di contaminazione radioattiva alla popolazione per inalazione e per ingestione, ma solo limitate conseguenze di irraggiamento esterno nella fase iniziale dell’incidente ed alle brevi distanze. Questo gas, infatti, è stato rilasciato nella massima parte nei primi giorni (tra 11 e 15 marzo 2010) e si è poi disperso rapidamente, soprattutto nella media ed alta atmosfera, senza alcuna conseguenza sanitaria alle medie lunghe distanze dal Giappone. Pur non essendo un radionuclide critico per gli effetti sanitari, tuttavia è un radionuclide molto indicativo sull’entità dell’incidente avvenuto.
  • 000 (trentaseimila) terabequerel (TBq) di Ce-137. Questo dato corrisponde al 42% delle emissioni di Cs-137 avvenute a Chernobyl. Il Cs-137, che non è un gas e che è soggetto a depositarsi al suolo per sedimentazione o attraverso la pioggia è, invece, un radionuclide di rilevanza sanitaria, perché ha una vita media di 30 anni e, se ingerito o inalato oltre certi limiti, comporta serie conseguenze di radiocontaminazione. Secondo le stime il 19% di emissioni di Cs-137 sono ricadute al suolo, direttamente o attraverso la pioggia, sul territorio giapponese, mentre il restante 81% al di fuori dei confini giapponesi, ma si è depositato prevalentemente sulle acque marine (dal momento che la nube radioattiva nella sua fase iniziale  – a maggior concentrazione di Cs-137 – ha attraversato l’Oceano Pacifico e, prima di arrivare in Europa, anche l’Oceano Atlantico. Solo il 2% del Cs-137 emesso si è depositato al suolo in America o in Europa. La maggior parte delle emissioni di Cs-137 sono avvenute tra il 12 ed il 19 marzo 2010 (ma soprattutto attorno al 14-15 marzo e attorno al 19 marzo). Le emissioni sono state molto minori nei giorni successivi al 20 marzo.

Per lo I-131 (iodio-131, un altro aerosol particolarmente significativo per i suoi effetti sanitari sulla tiroide) si possono fare delle valutazioni indirette. Se si considera il rapporto I-131/Cs-137, che tiene conto delle due diverse abbondanze presenti all’atto dell’incidente (valori noti) e dei diversi tempi di decadimento radioattivo dello I-131 (8 giorni) rispetto al Cs-137 (30 anni), si ricava che probabilmente le emissioni di I-131 sono state complessivamente di circa 20 volte superiori a quelle del Cs-137, cioè pari a circa 720.000 TBq, anche se questo dato non è stato verificato dalla ricerca.

Tali valutazioni, che sono considerate rappresentative dell’incidente avvenuto a Fukushima, mostrano che l’incidente nucleare giapponese è stato, come entità complessiva, paragonabile a quello di Chernobyl anche se avvenuto in modi molto diversi sia come tempi (quello di Chernobyl in una decina di giorni, quello giapponese fino ad una trentina di giorni), sia come tipologia (quello di Chernobyl un’unica grossa esplosione, quello giapponese con diverse minori esplosioni e modalità di rilascio).

(Emilio Santoro)

Fukushima e Chernobyl: la difficoltà di un paragone

Con riferimento alla nota Fukushima quasi come Chernobyl, ma non nelle modalità incidentali, che fa riferimento all’articolo di A. Stohl et al. apparso  su Atmospheric Chemistry and Physics, alcuni ricercatori dell’Unità Tecnica del Centro ENEA di Bologna competente sulla sicurezza dei reattori e sul ciclo del combustibile, ritengono doveroso analizzare nel dettaglio il contenuto dell’articolo stesso allo scopo di vagliarne la rispondenza alla realtà dei fatti.

I risultati proposti da Stohl et al. sembrerebbero indicare che il “termine sorgente” dell’incidente nucleare di Fukushima – ovvero la quantità totale di radioattività fuoriuscita dagli impianti danneggiati, nonché la tempistica di immissione nell’ambiente – sia comparabile, se non addirittura maggiore, di quello relativo all’incidente di Chernobyl del 1986. I risultati di questa analisi – limitata ai due radioisotopi Xe-133 e Cs-137 – sono stati ottenuti mediante ricorso ad un processo di calcolo a ritroso, a partire dalle misurazioni effettuate per diversi giorni da una rete di stazioni di misura di radioattività ambientale dislocate nel mondo, sfruttando modelli di propagazione, dispersione, attenuazione e diffusione in atmosfera dei due isotopi, e cercando di tenere in conto su scala planetaria l’effetto dei fenomeni meteorologici occorsi, fino a ricostruire un Termine Sorgente di Xe-133 e Cs-137 compatibile con le misurazioni ed i modelli assunti.

L’ammontare di radioattività rilasciata e la tempistica di emissione calcolati da Stohl et al. appaiono irrealistici alla luce di una serie di considerazioni legate ad aspetti tecnici ed impiantistici dei reattori coinvolti ed ai dati misurati disponibili ormai da alcuni mesi. Per giustificare le loro conclusioni Stohl et al. invocano meccanismi fisici o condizioni incidentali che non reggono ad una più approfondita disamina dei fatti.

In particolare, preme mettere in evidenza quanto segue.

1.      L’attività rilasciata calcolata per lo Xe-133 risulterebbe essere il 32,5% maggiore del quantitativo totale di Xe-133 presente nell'intero sito di Fukushima-Dai-ichi.  Stohl et al. propongono, quindi, alcune possibili spiegazioni per giustificare tale discrepanza, nessuna delle quali però è accettabile:

·         l’ipotesi di rilasci di Xe-133 anche dalle Unità 4, 5 e 6 non è compatibile con i tempi di arresto (almeno 3 mesi) di tali unità, più che sufficienti a far decadere lo Xe-133 in esse contenuto;

·         il verificarsi di eventi di ri-criticità nei reattori delle Unità 1, 2 o 3 sono esclusi su base fisica, date le condizioni di forte danneggiamento dei noccioli delle Unità incidentate;

·         il rilascio di Xe-133 da parte di altri reattori giapponesi a causa del terremoto è altresì escluso sia perché nessuno di tali rilasci è mai stato registrato dai misuratori di radioattività installati in-situ, sia in virtù dei risultati delle ispezioni compiute sui reattori della flotta giapponese dopo il terremoto.

2.      L’inizio delle emissioni calcolato da Stohl et al. addirittura immediatamente dopo il terremoto contraddice ogni dato misurato sugli impianti (dunque la ricostruzione stessa della sequenza incidentale), in particolare

·         non è stata misurata radioattività sul sito di Fukushima prima dello tsunami;

·         l’integrità del contenimento primario MARK-I è stata garantita per tutte le Unità per molte ore dopo lo tsunami (come dimostrato dai dati di tenuta all’interno dei contenimenti).

3.      La correlazione proposta da Stohl et al. tra la forte diminuzione di emissioni di radioattività calcolata il 19 marzo e l’inizio dello spruzzamento di acqua nella piscina di combustibile esausto dell’Unità 4, che implicherebbe un’emissione di radioattività da tale piscina prima del 19 marzo, è altamente dubbia poiché:

·         misure di radioattività nell’acqua della piscina mostrano livelli di contaminazione molto bassi;

·         ispezioni visive dello stato degli elementi di combustibile all’interno della piscina confermano la sostanziale integrità della maggior parte degli elementi di combustibile.

A meno che Stohl et al. siano in grado di identificare altre possibili spiegazioni per i loro risultati, è doveroso concludere che siano stati commessi errori di sovrastima nel calcolo delle emissioni, nonché nella ricostruzione temporale delle emissioni stesse. Proprio nella tempistica di emissione di radionuclidi contestuale al sisma si cela la chiave d’interpretazione dei risultati di Stohl et al. che ha permesso l’accostamento degli incidenti di Chernobyl e Fukushima, e che rappresenta invece la differenza sostanziale tra i due eventi. Nel caso giapponese, infatti, la filosofia delle barriere multiple e la difesa in profondità tipiche di ogni impianto nucleare occidentale hanno consentito l’esecuzione di rilasci controllati, con una tempistica sufficientemente ampia da garantire alle autorità la gestione dell’evacuazione, come previsto dai piani di emergenza, degli abitanti dalle zone limitrofe agli impianti, riducendo grandemente gli effetti sulla popolazione.

(Paride Meloni, ENEA)

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