Copertina della rivista
coltivazione di topinambur

Biotecnologie per la bioenergia

di Vito Pignatelli - ENEA, Unità Tecnica Fonti Rinnovabili

La produzione, diretta o sotto forma di combustibili solidi, liquidi e gassosi, di energia rinnovabile dalle biomasse prende il nome di “bioenergia” e si realizza per mezzo di processi di diversa natura, dalla combustione diretta alla trasformazione in combustibili prodotti per via termochimica o biologica.

I processi biologici più noti e utilizzati su larga scala sono la digestione anaerobica per la produzione di biogas e la fermentazione alcoolica, ma ne esistono molti altri, attualmente oggetto di attività di ricerca, sviluppo tecnologico e dimostrazione, che costituiscono un esempio importante di applicazione industriale delle moderne biotecnologie

La produzione sostenibile dell’energia necessaria per la crescita economica e il miglioramento generale delle condizioni di vita rappresenta una delle maggiori sfide che l’umanità nel suo complesso si troverà a dover affrontare nei prossimi anni, soprattutto in considerazione della necessità di dover far fronte ai cambiamenti climatici in atto e futuri.

In questo quadro, la bioenergia, intesa come quell’insieme ampio e diversificato di tecnologie che consentono di ottenere energia rinnovabile dalle biomasse, può fornire un contributo determinante a soddisfare la futura domanda di energia, considerato che essa costituisce già oggi, a livello mondiale, la più importante fra le fonti energetiche rinnovabili e possiede un significativo potenziale di espansione sia per quel che riguarda la produzione di elettricità e calore, sia - sotto forma di combustibili liquidi o gassosi, noti con il nome di biocarburanti - nel settore dei trasporti.

Per quel che riguarda in particolare il contesto europeo, la diffusa consapevolezza - recepita anche a livello politico e legislativo - dell’importanza della bioenergia ha portato negli anni ad una situazione particolarmente favorevole alla valorizzazione energetica delle biomasse (legno, residui legnosi, scarti e rifiuti di origine vegetale o animale, ma anche produzioni agricole dedicate) e, conseguentemente, ad un costante incremento del contributo di questa fonte energetica.

Come per tutte le altre fonti energetiche rinnovabili, infatti, lo sviluppo della bioenergia in Europa è stato indubbiamente favorito da un quadro legislativo e normativo che, nella sua costante evoluzione nel corso degli anni, ha portato all’emanazione della Direttiva n. 28 del 2009 sulla promozione delle fonti rinnovabili di energia (nota come Direttiva RED), che evidenzia uno stretto collegamento tra lo sviluppo della produzione di energia da fonti rinnovabili e l’aumento dell’efficienza energetica e, per la prima volta e con un significativo passo in avanti rispetto alla legislazione precedente, stabilisce che, per poter essere considerati ai fini dell’assolvimento dell’obbligo di sostituzione dei combustibili fossili nel settore dei trasporti o del raggiungimento della quota stabilita di uso di energia rinnovabile, biocarburanti e bioliquidi (combustibili liquidi ottenuti dalle biomasse e impiegati per la generazione di energia elettrica e/o calore), devono dimostrare il rispetto di criteri ben definiti e quantificabili di sostenibilità.

È del tutto evidente che, avendo a che fare con diverse tipologie di biomasse, la produzione di energia e/o combustibili a partire da queste materie prime può essere ottenuta con diverse tecnologie e, in quest’ambito, particolarmente rilevante e, in prospettiva futura, di primaria importanza è il ruolo delle biotecnologie, che costituisce il tema di questo articolo.

A tale proposito, occorre precisare che la bioenergia, rispetto ad altre fonti rinnovabili, presenta alcune differenze e peculiarità, che sono sostanzialmente:

  • il fatto di essere una fonte energetica continua e programmabile, per molti versi analoga, nell’uso, ai combustibili fossili e quindi in grado, ad esempio, di immettere elettricità nella rete di trasmissione senza problemi di fluttuazioni temporali o improvvisi arresti della produzione;
  • il fatto che, a partire dalle biomasse, è possibile coprire le esigenze di energia in tutte le forme richieste: elettricità, calore per riscaldamento e raffrescamento e biocarburanti;
  • il fatto che, a differenza di tutte le altre fonti rinnovabili, la bioenergia non è riconducibile a un insieme di tecnologie, ma deve essere sempre vista come una “filiera”: la biomasse devono essere infatti raccolte, o prodotte nel caso di coltivazione dedicate, trasportate e successivamente convertite in energia e/o combustibili solidi, liquidi e gassosi. Inoltre, dall’utilizzazione delle biomasse a fini energetici derivano sempre residui o sottoprodotti (ceneri di combustione, digestato, glicerolo, residui di distillazione ecc.), il cui recupero e riuso influisce spesso in modo rilevante sulla sostenibilità economica ed ambientale dell’intera filiera produttiva.

Da quest’ultimo punto discende una considerazione importante, soprattutto quando si parla di “sostenibilità” della bioenergia: le biomasse sono una risorsa rinnovabile, ma non inesauribile, per cui devono essere usate in tempi e modi che ne consentano la naturale ricostituzione da parte della fotosintesi clorofilliana. Diventa quindi essenziale evitare ogni forma di spreco (ivi inclusa, per quanto possibile, la sottrazione di terreno agricolo destinato o destinabile alla produzione di alimenti) e utilizzare, ad esempio, l’intera pianta e non solo una sua frazione o, meglio ancora, convertire in energia e/o combustibili gli scarti, residui e rifiuti che derivano dalla trasformazione dei prodotti dell’agricoltura, dell’allevamento, dell’industria alimentare, del legno ecc.

Considerando le filiere bioenergetiche nel loro complesso - con particolare riferimento a quelle che, come nel caso della produzione dei biocarburanti, utilizzano come materie prime prodotti agricoli come cereali o colture oleaginose -, è evidente l’importanza che, nei bilanci energetici e ambientali finali, possono assumere le biotecnologie applicate alle produzioni vegetali per l’incremento delle rese produttive e/o della resistenza agli stress ambientali e agli agenti patogeni, come pure per lo screening e l’individuazione, con tecniche di biologia molecolare, delle specie e varietà più adatte alla coltivazione in determinati ambienti, argomenti per il cui approfondimento si rimanda ad altri articoli di questo Speciale.

Iniziando invece ad affrontare il tema specifico delle tecnologie di conversione – e del ruolo delle biotecnologie in tale contesto -, è opportuno ricordare che, al momento attuale, le alternative più valide per l'utilizzazione energetica delle biomasse, tenuto conto del grado di maturità e dell'affidabilità delle relative tecnologie, sono sostanzialmente tre:

  • la combustione diretta, con conseguente produzione di calore da utilizzare per il riscaldamento domestico, civile e industriale o per la generazione di vapore (forza motrice o produzione di energia elettrica). Altre tecnologie termochimiche, come la pirogassificazione con produzione di syngas e successiva utilizzazione dello stesso per la generazione di calore e/o elettricità, pur in presenza di alcuni impianti produttivi, sono ancora prevalentemente oggetto di attività di ricerca e sviluppo, in particolare per quel che riguarda impianti di piccola taglia di potenziale interesse di aziende agricole ed agroindustriali;
  • la produzione di biogas mediante digestione anaerobica di reflui zootecnici, civili o agroindustriali, colture dedicate e frazione organica dei rifiuti urbani, e la successiva utilizzazione del biogas prodotto per la generazione di calore e/o elettricità o l’impiego come biocarburante;
  • la trasformazione in combustibili liquidi, utilizzati per la produzione di energia elettrica (bioliquidi) o nel settore dei trasporti (biocarburanti) di particolari categorie di biomasse coltivate come alcune oleaginose, cereali e colture zuccherine.

Ovviamente, le biotecnologie non hanno nulla a che vedere con i processi termochimici come combustione o gassificazione, ma sono estremamente importanti per quel che riguarda la produzione di biogas e biocarburanti.

Biogas e bioidrogeno

La digestione anaerobica (DA) è un processo biochimico di degradazione della sostanza organica in assenza di ossigeno che dà luogo alla produzione di biogas, costituito essenzialmente da una miscela di metano (55-65%v/v) e CO2, oltre alla presenza fino al 5%v/v di acqua, acido solfidrico ed ammoniaca. Il processo è realizzato da un consorzio microbico in grado di compiere diverse reazioni degradative della materia organica, più o meno rapide ed efficaci a seconda delle condizioni operative (pH, temperatura, diluizione del substrato, presenza di nutrienti o inibitori ecc.) in cui si svolgono.

Il processo di digestione anaerobica viene sfruttato per la produzione di energia rinnovabile mediante la conversione in biogas di biomasse residuali (reflui zootecnici, scarti e residui di produzioni agricole ed agroindustriali, fanghi di depurazione, frazione organica dei rifiuti urbani ecc.) e/o derivanti da colture dedicate (insilati di mais, sorgo ecc.). Si tratta di una tecnologia consolidata, con più di 600 impianti in funzione in Italia nel solo comparto agro-zootecnico (figura 1) e diverse migliaia in tutto il mondo.

Sottoponendo il biogas ad un opportuno trattamento di purificazione (clean-up) e rimozione della CO2 (upgrading), si ottiene metano praticamente puro, del tutto analogo a quello che costituisce il gas naturale che, per l’origine biologica, prende il nome di “biometano”.

Le tecnologie utilizzate per l’upgrading del biogas a biometano sono diverse, e ognuna presenta vantaggi e svantaggi che ne favoriscono, o ne sconsigliano, l’utilizzazione a seconda dei casi. Il paese leader a livello europeo nella produzione di biometano è la Germania, che ha pianificato una produzione nazionale di 6 miliardi di Nm3 (6% dei consumi totali di metano) nel 2020 e 10 miliardi di Nm3 nel 2030. In Germania l’immissione in rete del biometano è regolamentata da un’Ordinanza del 2008 (Biogaseinspeiseverordnung) che ne stabilisce la priorità di immissione nella rete nazionale di distribuzione del gas naturale e pone la maggior parte dei costi per gli allacciamenti a carico del gestore della stessa.

I processi di DA e le successive fasi di clean-up e upgrading del biogas a biometano sono oggetto di crescente attenzione per i vantaggi che il loro impiego potrebbe presentare:

  • per una gestione ottimale dei rifiuti, scarti e residui organici di diversa natura e provenienza, in quanto la loro conversione in energia trasforma un costo (lo smaltimento) in un possibile guadagno (la vendita e/o lo sfruttamento diretto dell’energia ricavata);
  • come soluzione integrativa ed alternativa per incrementare il reddito derivante dalle attività del settore imprenditoriale agricolo ed agroindustriale, con la possibilità di diversificare, con l’introduzione di nuove colture ad elevata resa di conversione e ridotte esigenze di acqua e fertilizzanti (figura 2), di aumentare le produzioni agricole consentendo di ampliare le coltivazioni anche in quei terreni che, per scarsa remuneratività e difficoltà di accesso, sono stati marginalizzati o abbandonati, senza depauperarne la capacità produttiva e preservandone il valore agronomico.

Le applicazioni delle biotecnologie per la produzione del biogas riguardano essenzialmente il campo della microbiologia per lo studio di sistemi di DA ottimizzati in termini di resa di biogas, presenza di inquinanti, utilizzo di nuove possibili miscele in co-digestione.

Quest’ultima linea è oggetto di maggiore attenzione, in particolare dove, come è il caso dell’Italia, non c’è una disponibilità particolarmente elevata di un’unica tipologia di biomassa, ma al contrario è presente un’alta differenziazione locale e stagionale delle biomasse utilizzabili ai fini della digestione anaerobica.

La co-digestione, sebbene richieda una maggior capacità di gestione ed un’approfondita conoscenza del processo anaerobico, favorisce il miglioramento delle rese energetiche specifiche del processo, soprattutto in presenza di substrati velocemente fermentescibili, ottimizza le caratteristiche fisico-chimiche della miscela di alimentazione, permette di raggiungere più facilmente la stabilità del processo rispetto alla digestione semplice di un substrato complesso, di diluire carichi organici eccessivi e picchi di concentrazione di sostanze inibenti e consente la stabilizzazione di residui di lavorazioni agroalimentari (sanse, acque di vegetazione, polpe, buccette, borlande ecc.) prodotte stagionalmente. In ultima analisi, la codigestione di biomasse fermentescibili di diversa natura favorisce la realizzazione di impianti decentralizzati per la produzione di energia, consentendo un buon ritorno economico dell’investimento anche per piccole realtà agro-industriali.

In quest’ottica, alcuni fornitori di tecnologie e impianti per la produzione di biogas hanno recentemente iniziato ad introdurre sul mercato “additivi” costituiti da consorzi di microrganismi appositamente selezionati che, fungendo da veri e propri inoculi per la fermentazione anaerobica, mirano a modificare la composizione della flora microbica presente nel digestore in modo da incrementare la velocità di conversione e la produzione di metano, o a favorire la degradazione di materiali con un elevato contenuto di cellulosa, come ad esempio i residui di alcune colture erbacee, rendendone conveniente l’impiego.

Allo stato attuale della tecnologia, quando si parla di biogas ci si riferisce, come detto precedentemente, ad una miscela costituita essenzialmente da metano e CO2, ma in realtà la degradazione anaerobica della sostanza organica è un processo estremamente complesso, costituito da diverse fasi in successione. In particolare, in uno stadio iniziale del processo - la cosiddetta fase acidogenica/acetogenica - si formano quantitativi non indifferenti di idrogeno che, prendendo successivamente parte ad altre reazioni, viene alla fine convertito praticamente tutto in metano.

Un approccio innovativo ai processi di produzione del biogas punta ad arrivare ad una separazione delle diverse fasi della digestione anaerobica, in modo da produrre idrogeno e, successivamente, metano che possono essere recuperati separatamente - ad esempio nella prospettiva di utilizzare l’idrogeno (che, nel caso specifico, viene anche chiamato “bioidrogeno”) per la produzione di elettricità con celle a combustibile - o riuniti per formare una miscela di gas combustibili, il cosiddetto idrometano, utilizzabile sia per la produzione di elettricità che come biocarburante.

Su questo tema specifico, presso i laboratori del Centro ENEA della Casaccia vengono condotte attività sperimentali mirate a modificare, in modo più o meno accentuato, le modalità di conduzione del processo di DA (condizioni operative, separazione fra le diverse fasi, composizione della comunità microbica ecc.). I principali argomenti delle attività di ricerca sono il potenziamento della produzione di metano da reflui e sottoprodotti quali liquami di allevamenti bovini, scotta e glicerolo, la separazione delle fasi di idrogenogenesi e metanogenesi per arrivare alla realizzazione di un processo cosiddetto “a doppio stadio”, l’individuazione di pool microbici funzionali alla produzione di idrogeno e naturalmente presenti in alcuni dei substrati considerati, come i liquami.

Parallelamente, sono state svolte indagini molecolari atte ad individuare i migliori pretrattamenti e/o condizioni di reazione per la selezione di pool microbici adatti alla produzione di idrogeno e a definirne la composizione, caratterizzando le comunità microbiche con tecniche di genetica molecolare.

È opportuno sottolineare come la scelta dell’inoculo e del tipo di pretrattamento più idoneo per la selezione dei microrganismi idrogenogenici rappresentano due aspetti correlati, in quanto il fine ultimo, ovvero l’ottenimento di un’adeguata selezione della biomassa idrogeno produttrice, può variare da caso a caso a seconda delle specie presenti nei diversi componenti della miscela avviata a digestione. Esistono infatti più tipi di specie di batteri idrogenogenici, che mostrano elevate rese produttive anche su biomasse più complesse, quali ad esempio la frazione organica dei rifiuti urbani (FORSU), ed ognuna di esse può essere selezionata dalla comunità microbica iniziale con pretrattamenti diversi.

L’elaborazione statistica dei risultati dei test sperimentali ha fornito informazioni utili per poter miscelare i substrati studiati in proporzioni diverse, a seconda delle relative disponibilità, e dai risultati emerge che il liquame, un substrato generalmente considerato non idoneo alla produzione di H2, in codigestione mostra un aumento della resa di produzione tale da far ritenere interessante il passaggio di scala su impianti pilota.

Biocarburanti

Con il termine “biocarburante” si intende un carburante liquido o gassoso utilizzato nei trasporti, ottenuto mediante la trasformazione di biomasse di diversa natura.

Nella scelta tra tutti i biocarburanti definiti tali a livello europeo, in Italia si propende principalmente, attraverso precise disposizioni normative, ad impiegare il biodiesel e il bioetanolo, in genere previa trasformazione in derivati (bio-eteri) come l’ETBE (etere etil-ter butilico) e, in misura minore, il TAEE (etere etil-ter amilico). Nel decreto legislativo n. 28 del 3 marzo 2011, che recepisce la Direttiva europea del 2009 sullo sviluppo delle fonti di energia rinnovabili (la cosiddetta “Direttiva RED”) è inoltre prevista l’emanazione di specifiche misure legislative e normative per favorire la produzione e l’impiego del biometano, ottenuto mediante upgrading del biogas, in sostituzione del metano di origine fossile.

Le caratteristiche chimico-fisiche dei biocarburanti devono soddisfare requisiti rigidamente fissati da normative tecniche europee e nazionali. L’utilizzo dei biocarburanti nel settore dell’autotrazione interessa una vasta gamma di soluzioni praticabili che prevedono la miscelazione con i carburanti fossili, a basse concentrazioni nei motori tradizionali, a medie concentrazioni con lievi modifiche degli stessi, fino ad arrivare all’impiego di biocarburante puro per alcune categorie di veicoli appositamente progettati.

La seguente tabella riporta alcune valutazioni e comparazioni fra i biocarburanti comunemente utilizzati effettuate dalla casa automobilistica tedesca Volkswagen:

 

Biodiesel

Etanolo

Biometano

Disponibilità potenziale

Percentuale limitata sui consumi totali di gasolio.

10-30% dei consumi di benzina, con possibile incremento legato alla produzione industriale da materiali lignocellulosici.

Percentuale elevata su un mercato attualmente limitato.

Sostenibilità

Questione aperta.

Conflitto “food vs fuel”; possibile soluzione etanolo da materiali lignocellulosici.

Differenti materie prime utilizzabili, possibile produzione da rifiuti.

Valutazioni e problematiche di natura tecnica

Leggermente peggiore del gasolio; compatibilità dei materiali migliore rispetto al gasolio.

Leggermente peggiore della benzina; problemi di incompatibilità dei materiali.

Leggermente migliore del gas naturale compresso (CNG).

Modalità di impiego nella UE

Miscelazione fino al 7% (in volume);

100-20% in applicazioni di nicchia.

Miscelazione fino al 10% in volume;

problemi di accettabilità da parte degli utenti.

Introdotto da poco;

utilizzato al 100% o in miscela con il gas naturale (certificati di immissione al consumo).

Fonte: Elaborazione ENEA da IEA Bioenergy - Future Biomass-based Transport Fuels, 2012

Come è noto, il primo carburante utilizzato da Rudolph Diesel per l’alimentazione del motore che ha preso il suo nome, fu olio di arachide, e molte proprietà e caratteristiche chimico-fisiche degli oli vegetali li rendono in effetti adatti - in linea di principio - ad essere impiegati come carburanti in questo tipo di motori, ma la principale controindicazione rispetto al loro uso diretto (che è però presente in alcune particolari situazioni, generalmente limitate all’alimentazione di trattori ed altre macchine agricole) è costituita dall’elevata viscosità.

Le caratteristiche degli oli vegetali possono essere notevolmente migliorate sottoponendoli ad un particolare processo che li trasforma in biodiesel, termine che indica un combustibile liquido costituito da una miscela di esteri di acidi grassi (in inglese “FAME” - Fatty Acid Methyl Ester) di origine vegetale o animale, utilizzabile, puro o in miscela con il gasolio, per l’alimentazione di motori a combustione interna a ciclo diesel.

La produzione del biodiesel è un processo industriale in cui un olio vegetale è fatto reagire in eccesso di alcol metilico con una reazione detta “transesterificazione”, che si avvale di tecnologie consolidate e si realizza in impianti di diversa taglia (figura 3). La scelta della tecnologia da utilizzare è determinata, a seconda dei casi, dalla valutazione delle capacità produttive desiderate, dalla natura e qualità delle materie prime che si intende utilizzare e dall’entità dell’investimento economico previsto.

La produzione industriale del biodiesel viene effettuata a partire da oli vegetali estratti da semi o frutti oleosi di colture dedicate (colza, soia, girasole, palma da olio ecc.), da oli alimentari esausti rigenerati o, in misura minore, da grassi animali di scarto dei processi di macellazione e lavorazione delle carni.

Il principale sottoprodotto della reazione è il glicerolo (glicerina), in fase acquosa, che deve essere sottoposto ad un adeguato trattamento di purificazione prima di essere rivenduto all’industria chimica, che lo utilizza direttamente come materia prima in diversi processi (produzione di saponi, cosmetici, prodotti farmaceutici, esplosivi ecc.).

La produzione di biodiesel è un classico processo chimico dove non sembrano esserci spazi per le biotecnologie ma, in prospettiva, gli enormi quantitativi di glicerolo reso disponibile come sottoprodotto dall’industria del biodiesel (a puro titolo di riferimento, la produzione europea di biodiesel nel 2011, pari a circa 8,8 milioni di tonnellate, corrisponde a poco meno di un milione di t di glicerolo), che hanno determinato una forte diminuzione del prezzo di mercato di questo prodotto, rendono interessante lo sviluppo di nuovi processi, anche di tipo biotecnologico, che ne consentano la conversione in prodotti chimici e/o energetici a più alto valore aggiunto.

Fra le diverse soluzioni proposte, i processi biologici presentano, rispetto alla sintesi catalitica, il vantaggio di non richiedere alte pressioni e/o temperature e, soprattutto, di poter utilizzare glicerolo non raffinato, perché meno sensibili all’eventuale presenza di contaminanti che possono dar luogo invece a fenomeni di inibizione dei catalizzatori. Fra questi, i processi basati sulla digestione anaerobica presentano un particolare interesse, in quanto richiedono un apporto ridotto di nutrienti, inoculi meno frequenti e minori costi di impianto e di gestione rispetto alle fermentazioni aerobiche, e possono portare ad una vasta gamma di prodotti finali.  Il glicerolo grezzo proveniente da impianti di biodiesel è già oggi utilizzato come substrato per la produzione di biogas in codigestione con altre biomasse, ma ben più interessante è il suo possibile impiego in processi fermentativi che, basandosi sulla digestione anaerobica, lo trasformino in intermedi per la sintesi chimica, biocarburanti e/o idrogeno. Infatti, rispetto agli zuccheri normalmente impiegati come substrato di processi fermentativi, il glicerolo presenta il vantaggio di essere in uno stato più “ridotto”, cioè di contenere in proporzione meno ossigeno, prestandosi meglio alla trasformazione in prodotti scarsamente ossigenati, quali ad esempio succinato, etanolo, butanolo e 2,3 butandiolo, oltre che alla produzione di idrogeno.

La conversione in una varietà di prodotti chimici ed energetici del glicerolo derivante dalla produzione di biodiesel costituisce un chiaro esempio di cosa si intende per “bioraffineria”, vista come un insieme di trasformazioni successive che portano alla valorizzazione completa di una biomassa o di un suo derivato - come è, nel caso specifico, l’olio vegetale - senza produrre praticamente alcun rifiuto.

La maggior parte dei processi biologici utilizzati per ottenere i prodotti precedentemente citati presenta però lo svantaggio di richiedere l’uso di ceppi microbici puri, in qualche caso anche ingegnerizzati, e questo porta ad un notevole aggravio dei costi dovuto alla necessità di operare in condizioni praticamente asettiche. Diventa quindi di primaria importanza lo sviluppo di processi basati sull’impiego di colture miste, ottenute a partire da consorzi microbici presenti in natura, che consentano di operare in condizioni non sterili.

Presso i laboratori dell’ENEA è stato studiato e sviluppato un processo per la produzione di idrogeno ed etanolo che, partendo da glicerolo grezzo e utilizzando un consorzio microbico opportunamente selezionato, ha mostrato rese di conversione particolarmente elevate (degradazione del substrato > 98%).

Il processo, coperto da brevetto con richiesta di copertura internazionale, è attualmente oggetto di valutazione per una possibile applicazione industriale e le relative analisi tecnico-economiche mostrano che, a differenza di altri processi fermentativi, i costi maggiori non sono dovuti alla fase di recupero e purificazione (downstream processing) dei prodotti finali, ma alle dimensioni del reattore, per cui l’obiettivo prioritario delle future attività di scaling-up dovrà essere quello di ridurre i tempi e migliorare la cinetica complessiva del processo in modo da ridurre significativamente i volumi dell’impianto.

A differenza del biodiesel, il bioetanolo - che è stato il primo combustibile liquido distribuito pubblicamente per l’alimentazione dei motori a scoppio degli autoveicoli ed è attualmente il biocarburante più utilizzato a livello mondiale - viene ottenuto per fermentazione degli zuccheri contenuti in biomasse vegetali di varia natura (zuccherine, amilacee o - nel caso del cosiddetto “etanolo di seconda generazione” - lignocellulosiche) ed è quindi un chiaro esempio di applicazione delle biotecnologie alla produzione di energia.

Quando la materia prima è una coltura zuccherina (canna da zucchero, barbabietola, sorgo ecc.), si procede con la semplice estrazione degli zuccheri per spremitura e/o diffusione in soluzione acquosa, seguita dalla fermentazione alcoolica, mentre i carboidrati complessi come l’amido, l’inulina e la cellulosa richiedono un trattamento preliminare di idrolisi, cioè di degradazione del polimero ad una soluzione di zuccheri semplici.

Se si ha a che fare con materie prime amilacee (cereali, patate) o ricche di inulina e altri polimeri a base di fruttosio (topinambur, cicoria da inulina), l’idrolisi viene in genere effettuata per mezzo di enzimi (amilasi o inulinasi) che reagiscono con il substrato finemente macinato, portato in soluzione acquosa e riscaldato fino a 90 °C e oltre, mentre l’idrolisi della cellulosa è un processo molto più complesso, non ancora utilizzato su scala industriale (anche se, proprio in Italia, è in fase di avvio il primo impianto pre-commerciale per la produzione di etanolo da biomasse lignocellulosiche, costruito dalla Chemtex Italia S.p.A. del Gruppo Mossi & Ghisolfi, basato su una tecnologia descritta in dettaglio in un altro articolo di questo Speciale).

Le soluzioni di zuccheri semplici (glucosio, fruttosio e saccarosio) provenienti dall’idrolisi sono poi avviate alla fermentazione ad opera di lieviti come il Saccharomyces cerevisiae o altri microrganismi, ottenendo alla fine una soluzione di etanolo in acqua ad una concentrazione generalmente compresa fra il 9 e il 14% in volume.

Il processo di produzione del bioetanolo genera, a seconda della materia prima agricola utilizzata, diversi sottoprodotti con valenza economica, destinabili a seconda dei casi alla mangimistica, alla cogenerazione, o riutilizzati all’interno del processo stesso.

A differenza del biodiesel, l’uso dell’etanolo in miscela con la benzina presenta alcuni problemi di compatibilità perché può dare luogo a fenomeni di smiscelazione in presenza di acqua e alla formazione di azeotropi volatili con gli idrocarburi più leggeri (butano), sostanzialmente dovuti alla diversa struttura chimica dei due prodotti.

Per questi motivi, in Europa e nel nostro paese, si tende ad impiegare l’etanolo non miscelandolo direttamente con la benzina, ma sotto forma di derivati (eteri) di cui il più importante è l’ETBE, ottenuto dalla reazione dell’alcol etilico con l’isobutene, un sottoprodotto proveniente dai processi di cracking e raffinazione del petrolio o dal gas butano o naturale.

Quando l’alcol impiegato per la sintesi dell’ETBE è bioetanolo (dove il prefisso bio- distingue l’etanolo ottenuto dalla biomassa da quello di origine fossile prodotto per idratazione dell’etilene), si parla più propriamente di bio-ETBE. Poiché alla sua sintesi chimica partecipa anche l’isobutene, di origine petrolifera, il bio-ETBE è considerato biocarburante solo per una frazione pari al 47% in peso.

Per quel che riguarda infine il biometano, è opportuno ricordare che questo biocarburante è presente attualmente sul mercato in quantitativi ancora limitati, e copre circa lo 0,5% del consumo totale di biocarburanti a livello europeo.

Fra tutti i paesi che hanno avviato la produzione di biometano, l’unico a privilegiarne decisamente l’impiego come carburante per i trasporti è la Svezia, dove il biometano alimenta camion per la raccolta dei rifiuti, autobus per il trasporto pubblico (figura 4) e auto private, ed è presente una rete di distributori di questo biocarburante.

Biocarburanti di seconda generazione

Con la sola - ma poco rilevante - eccezione del biometano, tutti i biocarburanti attualmente distribuiti su larga scala sono ricavati a partire da colture ben note: oleaginose come colza, soia, girasole e palma da olio o zuccherine come mais, grano, barbabietola e canna da zucchero. Si tratta in tutti i casi di colture largamente diffuse e utilizzate prevalentemente a fini alimentari, sia nel nostro paese che in altri contesti europei ed extra-europei. In questo caso si usa parlare di biocarburanti di prima generazione, in quanto prodotti da biomasse legate in qualche modo alla filiera alimentare dell’uomo.

L’attuale tendenza ad incorporare percentuali crescenti (ma, tutto sommato, limitate) di questi prodotti in benzina e gasolio va incontro all’esigenza del sistema produttivo agricolo di diversificare le proprie produzioni e di utilizzare grandi estensioni di terreni non più destinabili alla produzione di risorse alimentari. Ovviamente, questa convergenza di interessi è valida solo fino ad un certo punto perché, con l’aumentare della richiesta, si rischia di innescare una pericolosa competizione fra le possibili destinazioni alternative efficacemente sintetizzata dall’espressione “food vs fuel”.

Questa preoccupazione è fortemente sentita a livello europeo, al punto che, in sede di revisione e aggiornamento della Direttiva n. 28 del 2009 sulla promozione delle fonti rinnovabili di energia (Direttiva RED), che prevede l’obbligo di coprire nel 2020 il 10% dei consumi energetici nel settore dei trasporti con energie rinnovabili, è attualmente in discussione la proposta di limitare al 5% il contributo dei biocarburanti ottenuti a partire da materie prime a possibile destinazione alimentare, coprendo il restante 5% con elettricità da fonti rinnovabili e biocarburanti cosiddetti “di seconda generazione”.

Questa comune denominazione raggruppa in realtà un gran numero di prodotti, ottenibili da diverse materie prime con una varietà di processi a diversi stadi di sviluppo (dal laboratorio all’impianto dimostrativo pre-commerciale), ma nessuno ancora presente sul mercato in quantità significative.

Un elenco non esaustivo di biocarburanti di seconda generazione è riportato nella tabella seguente:

Tipologia

Biocarburante

Materie prime

Processo produttivo

Bioetanolo

Etanolo da cellulosa

Materiali lignocellulosici

Idrolisi enzimatica e fermentazione

Biocarburanti di sintesi

  • Fischer-Tropsch diesel;
  • Biometanolo;
  • Alcoli superiori (butanolo e altri);
  • Dimetil etere (DME);
  • Ossigenati di sintesi (etanolo + MTHF ecc.).

Materiali lignocellulosici

Gassificazione e sintesi

Biodiesel (ibrido fra Ia e IIa generazione)

Hydrodiesel

Greendiesel da pirolisi

Biolio da microalghe

Oli e grassi vegetali e animali

Materiali lignocellulosici

Microalghe

Idrogenazione catalitica

Pirolisi

Coltivazione ed estrazione

Metano

Gas naturale di sintesi (SNG)

Materiali lignocellulosici

Gassificazione e sintesi

Idrogeno

Bioidrogeno

Materiali lignocellulosici

Biomasse fermentescibili

Gassificazione e separazione

Fermentazione anaerobica

Fonte: IEA, Bioenergy Implementing Agreement. From 1st to 2nd Generation Biofuel Technologies, 2008

Denominatore comune delle filiere dei biocarburanti di seconda generazione è comunque l’uso, come materia prima, di substrati generalmente non utilizzabili a fini alimentari (ad esempio, materiali lignocellulosici e oli non commestibili) o prodotti comunque in aree diverse da quelle tradizionalmente destinate alle produzioni agricole convenzionali, come ad esempio le colture di microalghe.

Le tecnologie utilizzate per la produzione di biocarburanti di seconda generazione sono sia termochimiche (gasificazione, pirolisi, idrogenazione catalitica ecc.), che di natura biologica.

Questa seconda categoria comprende tutti quei processi basati sull’uso di microrganismi (fermentazioni aerobiche e anaerobiche) ed enzimi (idrolisi della cellulosa), che sono tipici esempi di applicazione delle biotecnologie, sia per quel che riguarda le colture microbiche, sia relativamente agli aspetti più propriamente legati alla tecnologia di processo.

Una fra le applicazioni potenzialmente più interessanti delle biotecnologie per la produzione di bioenergia è, infine, la produzione di biocombustibili liquidi da colture di microalghe, attualmente oggetto di interesse e di numerose attività sperimentali di ricerca, sviluppo e dimostrazione in diverse parti del mondo.

Questi organismi sono infatti in grado di sintetizzare ed accumulare grandi quantità di lipidi, utilizzabili per la produzione di biocarburanti con processi convenzionali (biodiesel) o innovativi, e questa modalità di produzione - i cui prodotti finali vengono spesso indicati come “biocarburanti di terza generazione” - appare particolarmente promettente in quanto le rese ottenibili da un ettaro di superficie messa a coltura con microalghe sono stimate intorno alle 30 tonnellate di olio/anno, valore che è circa di un ordine di grandezza superiore alla migliore resa produttiva delle piante oleaginose terrestri (olio da coltivazioni di palma in ambienti tropicali: 4-5 t/ha/anno).

Rese così elevate non sono però in grado di assicurare di per sé una convenienza economica per l’impresa che decida di avviarne la produzione. Infatti sia le poche esperienze finora realizzate a livello di impianti pilota che gli studi e simulazioni effettuati estrapolando i dati ottenuti in laboratorio fanno ritenere che i costi degli impianti di coltivazione delle microalghe e quelli relativi all’insieme dei processi di downstream (recupero della biomassa, estrazione e purificazione della componente lipidica) siano ancora troppo alti, anche a causa delle elevate richieste energetiche del processo.

Inoltre, per ottenere produzioni significative, le estensioni ed i volumi delle colture algali devono raggiungere valori ragguardevoli, dell’ordine minimo di svariati ettari se si parla di coltivazioni in vasche (open ponds), e quindi tali da porre, oltre ai problemi di natura tecnologica e di bilanci energetici ed economici, anche una serie di pressioni sull’ambiente ospitante le coltivazioni e su quello circostante.

Per raggiungere, quindi, l’obiettivo di un bilancio economico ed energetico favorevole è necessario agire sia sul versante dell’incremento di produttività, cercando di riprodurre a livello di impianto i risultati ottenuti alla scala di laboratorio, sia sugli aspetti più propriamente ingegneristici del processo, per arrivare ad una semplificazione e standardizzazione della componente impiantistica, contenendo significativamente i relativi costi.

Una possibile soluzione intermedia, praticabile nel breve-medio periodo e in grado di ovviare alla mancanza, a livello mondiale, di tecnologie consolidate per la produzione intensiva su larga scala di biomassa microalgale a basso costo potrebbe essere quella di realizzare impianti su piccola/media scala per la produzione di microalghe da destinare alla produzione di biogas, che, oltre a non richiedere alcun processo di frazionamento e recupero di singole componenti della biomassa, presenterebbero il valore aggiunto della depurazione di acque reflue (figura 5) e dell’assorbimento di CO2, inclusa parte di quella prodotta dai cogeneratori, e consentirebbe di produrre energia in modo più semplice e con minori input energetici e standard qualitativi della biomassa prodotta rispetto a quanto richiesto per la produzione di biodiesel.

Per informazioni e contatti: 

Impianto di produzione di biogas
Figura 1- Impianto per la produzione di biogas da 500 kW in un’azienda agro-zootecnica nei pressi di Sutri (VT), aprile 2011 Fonte: Immagine di proprietà dell’autore
Fiori
Figura 2 - Coltivazione sperimentale di topinambur - Cicerale (SA), settembre 2011 Fonte: Immagine di proprietà dell’autore
Impianto per la produzione di biodiesel
Figura 3 - Impianto per la produzione di biodiesel della capacità produttiva di 400.000 t/anno della Biopetrol Industries AG, Rotterdam (NL), maggio 2009 Fonte: Immagine di proprietà dell’autore
Autobus
Figura 4 - Mezzi di trasporto pubblici alimentati a biometano nella città svedese di Kristianstad, aprile 2008 Fonte: Immagine di proprietà dell’autore
Coltivazione di microalghe
Figura 5 - Coltivazione sperimentale di microalghe per il trattamento degli effluenti liquidi di un impianto per la produzione di biogas nei pressi di Lendava, Slovenia, ottobre 2011 Fonte: Immagine di proprietà dell’autore
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