Copertina della rivista
Installazione Butehamon - Archeologia Invisibile

L’innovazione nel settore culturale museale

di Enrico Ferraris

DOI 10.12910/EAI2023-034

La visione olistica dei reperti e della loro biografia, l’adozione di un protocollo di studio che lega in unità circolare diagnostica, restauro e ricerca storica, e la costruzione di un repository digitale per la preservazione della conoscenza scientifica dei reperti per le generazioni future, sono così aspetti di una visione ecosistemica che il Museo Egizio sta progressivamente realizzando, confermandosi luogo privilegiato per il dialogo interdisciplinare e per la preservazione della materialità dell’antico che attraversa il tempo e risponde alle domande che il progresso scientifico e diagnostico via via hanno saputo e sapranno ancora ispirare.

Enrico Ferraris

Enrico Ferraris

Egittologo, Curatore presso il Museo Egizio di Torino

I Musei possono essere agenti di cambiamento ed innovazione? Certamente sì, o almeno è nella loro stessa natura il ripensarsi al mutare dei tempi e delle società come esprime bene questa riflessione dell’egittologo S. Donadoni: "Un museo che ripensa se stesso non fa altro che rendere omaggio alla sua natura e alla sua funzione. Gli oggetti che lo costituiscono e che acquistano una qualità e un significato ben definiti dal fatto di esservi conservati, rispetto a quelli ancora in uso o dimenticati e dispersi, sono disposti a dialogare con il visitatore secondo programmi spesso impliciti, che il museo suggerisce, o consente. È quindi nell'ordine delle cose che la maturazione e la variazione dell'esperienza culturale nel flusso del tempo costringano a ripensare la gerarchia dei valori e del significato di ciò che apparentemente costituisce un patrimonio immutabile […] il significato di una struttura di questo tipo è costantemente rinnovabile, anche se materialmente rimane lo stesso. La sua crescita non è una mera questione di quantità, ma è anche il risultato del nuovo significato che acquisisce nel tempo" [1].

Questo pensiero chiarisce molto bene la relazione tra progresso, memoria e identità che i musei materializzano attraverso le collezioni che preservano e rendono accessibili. È pertanto anche un buon presupposto per condividere l’esperienza trasformativa che il Museo Egizio sta sperimentando dall’inizio della direzione Greco (2014) grazie alla crescente integrazione dell’archeometria - e delle competenze e strumentazioni scientifiche correlate - nei processi di studio delle proprie collezioni.

Dalla Diagnostica pre-restauro all’Archeometria

Fin dagli anni ’60 i Musei hanno fatto uso di tecniche di indagine scientifiche volte a caratterizzare i materiali costitutivi delle opere d’arte che si apprestavano a restaurare. Naturalmente, la finalità dell’operazione circoscriveva, nella maggioranza dei casi, il set di analisi alla singola opera e allo specifico intervento conservativo richiesto. Ciò nondimeno era evidente, già all’epoca, che il processo diagnostico oltre a identificare i materiali e le strutture era in grado di descrivere anche elementi utili alla migliore comprensione della biografia dell’opera d’arte e, eventualmente, dei tratti tecnici distintivi di chi l’aveva prodotta. Se quest’ultimo aspetto indicava nelle indagini scientifiche un nuovo e potente strumento a supporto dei processi di autenticazione delle suddette opere, è al pari vero che la possibilità di accedere a tali informazioni apriva un orizzonte di ricerca virtualmente illimitato agli studi umanistici.

A rischio di forzare una generalizzazione, va osservato che il peculiare contesto delle collezioni archeologiche è stato interessato da queste opportunità di studio più tardivamente rispetto alle collezioni d’arte. I fattori di tale fenomeno sono molteplici e per nulla omogenei su scala internazionale e disciplinare. Se guardiamo agli studi egittologici, tuttavia, possiamo isolare forse alcuni fattori di questo ritardo. In primo luogo, è da considerare che la decifrazione del sistema geroglifico da parte di J. F. Champollion (1820), che ha dato origine alla disciplina stessa, ha connotato il successivo sviluppo della disciplina in una direzione che ha privilegiato la testualità e la storia del pensiero, rallentando indirettamente la maturazione di un interesse per la cultura materiale e la conseguente acquisizione di approcci interdisciplinari alternativi tra i propri strumenti di ricerca. In secondo luogo, non può essere trascurato che il mercato che ruota intorno alle collezioni d’arte e, conseguentemente, le risorse economiche disponibili per attività conservative e di studio – fondamentali per autentiche, nuove attribuzioni o nuove scoperte - tramite indagini scientifiche, sono certamente molto più consistenti di quelle che interessano le collezioni archeologiche. Infine, occorre certamente evidenziare l’indisponibilità - almeno fino a tempi più recenti - di strumentazione diagnostica portatile che riducesse costi e rischi per i reperti, svolgendo le analisi direttamente presso la sede dove i reperti sono conservati, primi fra tutti i magazzini dei musei.

Un esempio eclatante, di quest’ultimo fattore, è certamente quello dell’impiego dei raggi-X nello studio dei resti umani e animali mummificati.

Pochi mesi dopo la scoperta dei raggi X da parte di W. C. Roentgen nel novembre 1895, il fisico W. Koenig condusse una prima campagna radiografica i cui risultati furono pubblicati nel marzo 1896 nell’album intitolato "14 fotografie con raggi X scattate dalla Società fisica di Francoforte sul Meno"[2] . La lista delle riprese radiografiche includevano mani con anelli, oggetti d’uso comune, uccelli, rettili e una mummia di bambino e una di gatto conservati al Museo di Storia Naturale di Senckenberg. Il potenziale della nuova tecnologia apparve immediatamente chiaro a coloro che all’epoca eseguivano ancora gli sbendaggi come metodo standard per lo studio dei processi di imbalsamazione egizi, ma le difficoltà logistiche connesse alle operazioni di trasporto presso le unità ospedaliere dotate delle macchine radiografiche spensero rapidamente i primi entusiasmi. Con la produzione dei primi dispositivi radiologici mobili, negli anni ’60, prendono il via presso le maggiori collezioni egittologiche del mondo (es. Cairo, Londra, Parigi, Leida) estese campagne di analisi sulle mummie; ha così inizio una storia scientifica che, passando attraverso la successiva invenzione delle scansioni tomografiche computerizzate, negli anni ’70, si è sviluppata in un vero e proprio ramo di studi specialistico interdisciplinare nel quale oggi collaborano radiologia, antropologia fisica, medicina ed egittologia.

In Italia, una storia simile si sta ripetendo, in tempi più recenti, anche nell’ambito della caratterizzazione materiale dei beni culturali. La nascita di infrastrutture europee di ricerca nel campo dell’Heritage Science (es. E-RIHS, Iperion HS), la disponibilità di set di strumenti mobili sempre più ampio e performante, e un generale e crescente interesse delle massime istituzioni scientifiche nazionali (es. CNR, INFN, ENEA) per l’avvio di collaborazioni di ricerca con partner culturali, ha catalizzato l’avvio di campagne archeometriche presso quei musei che pur non disponendo di laboratori diagnostici propri pongono la ricerca scientifica in cima alla propria agenda istituzionale, come ad esempio è il caso del Museo Egizio.

Primi passi

Con la nomina alla direzione di Christian Greco, nel 2014, il Museo Egizio ha inaugurato un nuovo asse di ricerca finalizzato a portare a sistema l’impiego delle indagini archeometriche come mezzo di studio delle collezioni e a costituire un anello di collaborazioni scientifiche internazionale, in grado di attivare un dialogo multidisciplinare sulle evidenze e sui dati.

Due progetti di ricerca caratterizzati da campagne sistematiche, su specifiche classi di oggetti, hanno segnato l’esordio del Museo Egizio in questo importante percorso di trasformazione dell’istituzione.

Il primo è il Vatican Coffin Project, avviato nel 2008 dal Reparto Antichità Egizie e del Vicino Oriente in collaborazione con il Laboratorio di Diagnostica per la Conservazione e il Restauro dei Musei Vaticani. Il progetto del quale fanno parte anche il Louvre, il Rijksmuseum van Oudheden di Leida, il Centre de Recherche et de Restauration des Musées de France (C2RMF) e il Centro Conservazione e Restauro della Venaria Reale, sviluppa e applica un protocollo diagnostico per lo studio dei sarcofagi del Terzo Periodo Intermedio (XXI-XXII dinastia, 1070-712 a.C.), provenienti da Tebe Ovest, caratterizzati da un apparato decorativo di altissimo livello tecnico e presente in moltissime collezioni sparse nel mondo. I partner del progetto generano dati dall’indagine sui sarcofagi presenti nelle proprie collezioni e, in periodiche riunioni, discutono nuovi approcci diagnostici per ampliare, mediante confronti, la comprensione delle tecniche impiegate dagli artigiani egizi e possibilmente elementi diagnostici utili all’individuazione di eventuali workshops e altri aspetti dell’organizzazione materiale e professionale dei laboratori artigiani, un ambito questo in gran parte oscuro alle fonti scritte.

Il protocollo diagnostico prevede analisi per immagini (luce visibile, fluorescenza UV indotta, fluorescenza UV in falsi colori, IR in bianco e nero a varie lunghezze spettrali, IR in falsi colori, luminescenza con illuminazione led monocromatica, radiografia digitale, ricostruzione 3D con luce strutturata), analisi puntuali senza prelievo (FT-IR, RAMAN, NMR, XRF, misure colorimetriche) e analisi con microprelievo (microstratigrafia su sezione lucida, mineropetrografia su sezione sottile, SEM-EDS, FT-IR in modalità ATR e mappatura 3D, RAMAN con mappatura, diffrazione RX, analisi cromatografiche CG-MS e HPLC, analisi micrografica del legno) e prevedono la collaborazione stretta tra enti museali e centri di ricerca in grado di provvedere alla strumentazione e il know how per l’interpretazione dei dati.

Un secondo progetto, denominato ME Mummy Project è stato siglato nel 2017 grazie ad un accordo del Museo Egizio con il centro di ricerca EURAC di Bolzano che, grazie ad una TAC mobile, ha effettuato l’analisi delle oltre 125 mummie animali e 110 mummie umane conservate a Torino. Il progetto annovera tra i suoi obiettivi di ricerca primari lo studio antropologico e zoologico dei resti mummificati (età, genere, sesso, specie) e delle relative tecniche di imbalsamazione e bendaggio. Specifici set di analisi sono stati condotti inoltre per individuare criticità conservative, dovute al naturale deterioramento dei materiali costitutivi o agli attacchi microbiologici, e alla formulazione di un opportuno piano di intervento. In un'ulteriore fase, sono stati infine prelevati piccoli campioni da tutte le mummie in cui è presente un accesso al tessuto molle o osseo. I campioni sono stati datati al radiocarbonio e all'analisi genetica per la valutazione dei fattori di rischio genetici legati alle malattie cardiovascolari nelle mummie.

Il dialogo tra discipline umanistiche e scienze naturali

Un terzo progetto di ricerca ha rappresentato uno step ulteriore per la maturazione di nuove strategie di studio e di coordinamento della ricerca, perché anziché concentrarsi su una singola classe di oggetti ha comportato la conduzione di una estesa campagna archeometrica sugli oltre 460 oggetti che compongono il corredo funerario della Tomba di Kha e Merit (TT8) esposto al Museo Egizio.

La scoperta è avvenuta il 15 febbraio 1906 nella necropoli settentrionale di Deir el-Medina, dalla Missione Archeologica Italiana guidata dal direttore del Museo Egizio dell’epoca, Ernesto Schiaparelli, e rappresenta uno dei massimi conseguimenti scientifici dell’attività di scavo del Museo in Egitto. La tomba e il corredo appartengono, infatti, a due individui di alto rango, il "direttore dei lavori" Kha e sua moglie Merit, vissuti alla fine della XVIII dinastia (ca. 1450 a.C.). Si tratta del più ricco e completo corredo funerario non regale mai rinvenuto in Egitto; grazie alla presenza di cartigli faraonici su diversi oggetti, è inoltre un contesto perfettamente datato e un fondamentale punto di riferimento per i confronti tipologici di oggetti provenienti da altri contesti. Malgrado la sua importanza per la disciplina e per la storia scientifica del Museo, uno studio completo e interdisciplinare non è mai stato realizzato e, pertanto, è stato avviato nel 2017 un ampio piano di analisi archeometriche nell'ambito di un programma internazionale di ricerca, intitolato "TT8 Project"[3]. L'obiettivo del progetto è quello di pubblicare uno studio completo sulla TT8 che sia in grado di soddisfare gli standard scientifici della disciplina e di mettere tutti i dati a disposizione della comunità scientifica, a partire dal bicentenario del Museo Egizio nel 2024.

La principale sfida del progetto consiste nella grande varietà di classi di oggetti (mobili, tessili, oggetti d’uso quotidiano, contenitori, sarcofagi, ecc.) e soprattutto di materiali (legno, metallo, papiro, vetro, faïence, fibre tessili, resti umani, resti botanici, alimenti) che richiedono expertise egittologiche e diagnostiche differenziate.

Il dialogo tra le discipline umanistiche e le scienze naturali soffre spesso della mancanza di una grammatica condivisa che metta insieme le esigenze scientifiche e le domande di ricerca di una collezione archeologica e le potenzialità offerte dalle indagini scientifiche. Il progetto si è rivelato pertanto anche un importante terreno di incontro tra i curatori e i conservatori, da un alto, e i numerosi scienziati che via via collaborano al progetto, dall’altro, stimolando la definizione di protocolli di indagine in grado di guidare il processo di studio degli oggetti, l’ottimizzazione delle risorse scientifiche a disposizione e la pubblicazione preliminare dei dati[4].

Questi progetti, e i molti altri di diversa ampiezza che si sono succeduti negli anni, non solo hanno permesso la nascita di un anello internazionale di oltre un centinaio di accordi di ricerca con musei, università e centri di ricerca ma di porre le basi per un costante dialogo interdisciplinare tra scienze umane e scienze naturali che ha avuto anche importanti conseguenze di natura museologica; dopo aver interessato l’asse della conservazione e della ricerca scientifica, la riflessione sulla materialità si è trasferita, infatti, anche al terzo asse portante dell’attività del Museo Egizio: la disseminazione.

“Archeologia Invisibile”

Dopo meno di cinque anni dall’avvio delle prime campagne archeometriche in museo, una nuova comprensione degli oggetti e del loro significato aveva raggiunto la massa critica per tradurre un’inedita narrativa a supporto dell’esperienza di visita in museo.

Nel 2019 viene così inaugurata una mostra temporanea intitolata “Archeologia Invisibile[5] il cui concept ruota intorno all’idea che la collaborazione tra Egittologia, Tecnologia e Scienze Naturali, nello studio dei reperti della collezione di Torino, dischiude informazioni, altrimenti inaccessibili ed invisibili ad occhio nudo, che permettono di ricomporre aspetti ancora ignoti circa la biografia dei reperti (chi lo ha fatto, come, perché, quando, dove, con che materiali, dove è stato trovato) e di sviluppare, al contempo, i metodi migliori per conservarli.

Sul piano museologico, il progetto si rivela, inoltre, di grande interesse anche per il ruolo affidato in questa narrativa alla Scienza e al suo metodo di indagine: unico strumento riconosciuto per decodificare quelle esperienze sedimentate e nuovo possibile linguaggio per coinvolgere i visitatori in un’esperienza dei manufatti più autentica. Si prefigura, insomma, la possibilità di emancipare le aspettative dei visitatori dalla tradizionale narrazione, esotica ed auratica, della cultura e della storia dell’Egitto antico che, dal XIX secolo fino ai giorni nostri, ne ha sistematicamente ridotto lo spessore e la ricchezza a una galleria di patinati cliché.

Il percorso espositivo è concepito come un viaggio verso l'invisibile e ritorno ed è suddiviso in tre sezioni, ciascuna dedicata a un momento specifico della vita di un manufatto. Nella prima sezione, "Archeologia", due proiezioni a parete mostrano come le prime applicazioni fotografiche sugli scavi si siano evolute nella moderna fotogrammetria utilizzata per documentare i contesti archeologici. La seconda sezione, "Analisi", accoglie i visitatori con esempi moderni di minerali grezzi, leganti e pigmenti comunemente usati dagli antichi pittori egizi. Questi materiali forniscono un'introduzione alla chimica alla base degli strati pittorici, rendendo più accessibile al pubblico il lavoro congiunto delle tecniche di imaging multispettrale e del mapping XRF, per rendere visibili le scelte di materiali e i gesti tecnici realizzati dagli artigiani. La terza sezione, "Conservazione", presenta tre casi di studio sulle attività di conservazione di dipinti murali, papiri e tessuti. La parte finale di questa sezione - e della mostra - rappresenta in un certo senso la sintesi delle esperienze viste in mostra proponendo un oggetto interamente creato dai dati: una stampa 3d a grandezza naturale del sarcofago esterno dello scriba reale Butehamon (circa 1000 a.C.), ottenuta da modello fotogrammetrico sub millimetrico, e una narrazione mapping proiettata su di esso con la sintesi della sua storia costruttiva ricomposta attraverso le analisi archeometriche condotte.

Questa installazione rinvia in sala anche ad una riflessione sulla relazione tra digitale e reale nell’esperienza culturale del museo. L’enorme accumulo di dati, in via di stoccaggio, non solo aumenta esponenzialmente anche le opportunità di collegare dati e oggetti, aprendo nuove frontiere per lo studio, la valorizzazione e la conservazione dei reperti, ma rende di fatto possibile costruire modelli digitali dei reperti stessi che incorporino nel tempo gli elementi che li riguardano, dalla loro struttura e decorazione, alla loro biografia, agli interventi di restauro, agli allestimenti in Museo o in mostre. Il mondo digitale mette a disposizione così un habitat ideale in cui le informazioni preservate dall’oggetto possono divenire visibili e, poiché non più vincolate all’ esperienza hic et nunc imposta dalla natura stessa dell’oggetto, riproducibili.

Traguardo e ripartenza

Con l’avvicinarsi del suo Bicentenario, nel 2024, il Museo Egizio ha avviato una riflessione sulla propria visione e missione e, con alle spalle una pandemia, ha ripreso ad interrogarsi sulla propria natura e sulle sfide che il XXI secolo pone al mondo museale, cercando le proprie risposte nella ricerca, nell’innovazione e nel dialogo interdisciplinare.

La visione olistica dei reperti e della loro biografia, l’adozione di un protocollo di studio che lega in unità circolare diagnostica, restauro e ricerca storica, e la costruzione di un repository digitale per la preservazione della conoscenza scientifica dei reperti per le generazioni future, sono così aspetti di una visione ecosistemica che il Museo Egizio sta progressivamente realizzando.

Al contempo il Museo si conferma luogo privilegiato per il dialogo interdisciplinare e per la preservazione della materialità dell’antico che, come un paziente interlocutore in ascolto, attraversa il tempo e risponde alle domande che i progressi scientifici e diagnostici via via hanno saputo e sapranno ancora ispirare.

Gallery

Note

[1] Donadoni Roveri, Anna Maria (ed.) 1989, Passato e futuro del Museo Egizio di Torino: dal museo al museo, Archivi di archeologia, Torino, p. 3.

[2] W. Konig, 14 Photographien mit Röntgen-Strahlen : aufgenommen im physikalischen Verein zu Frankfurt A.M., Leipzig 1896.

[3] E. Ferraris, «TT8 Project: An introduction», in in Deir el-Medina through the Kaleidoscope, Museo Egizio di Turin, 8th-10th October 2018, [https://formazioneericerca.museoegizio.it/pubblicazioni/deir-el-medina/]

[4] J. La Nasa, I. Degano, F. Modugno, C. Guerrini, F. Facchetti, V. Turina, A. Carretta, C. Greco, E., M. P. Colombini and E. Ribechini, « Archaeology of the invisible: The scent of Kha and Merit », J. Archaeol. Sci., Vol. 141 (2022), 1055-77.
G. Festa, M. L. Saladino, V. Mollica Nardo, F. Armetta, V. Renda, G. Nasillo, R. Pitonzo, A. Spinella, M. Borla, E. Ferraris, V. Turina, and R. C. Ponterio, « Identifying the Unknown Content of an Ancient Egyptian Sealed Alabaster Vase from Kha and Merit’s Tomb Using Multiple Techniques and Multicomponent Sample Analysis in an Interdisciplinary Applied Chemistry Course ». J. Chem. Educ. 98,2 (2021), 461–468.
G. Festa, T. Christiansen, V. Turina, M. Borla, J. Kelleher, L. Arcidiacono, L. Cartechini, R.C. Ponterio, C. Scatigno, R. Senesi, C. Andreani, « Egyptian metallic inks on textiles from the 15th century BCE unravelled by non-invasive techniques and chemometric analysis ». Sci Rep 9, 18001 (2019).
G. Festa, T. Minniti, L. Arcidiacono, M. Borla, D. Di Martino, F. Facchetti, E. Ferraris, V. Turina, W. Kockelmann, J. Kelleher, R. Senesi, C. Greco, C. Andreani, « Egyptian Grave Goods of Kha and Merit Studied by Neutron and Gamma Techniques ». Angew. Chem. Int. Ed. 57 (2018), 7375-7379.
Andreani, C., Aliotta, F., Arcidiacono, L., Borla, M., Di Martino, D., Facchetti, F., Ferraris, E., Festa, G., Gorini, G., Kockelmann, W., Kelleher, J., Malfitana, D., Micieli, D., Minniti, T., Cippo, E., Ponterio, R., Salvato, G., Senesi, R., Turina, V., Vasi, C., Greco, C., « A neutron study of sealed pottery from the gravegoods of Kha and Merit », J. Anal. At. Spectrom. 32 (2017), 1342-1347

[5] AA.VV., Archeologia Invisibile, Modena 2019

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